Avanzare sulla strada dei Cinque Presidenti. Il punto di vista di Stefano Micossi

27 marzo 2017
Editoriale Europe
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Questo brano è tratto dal libro Europa sfida per l’Italia, pubblicato da LUISS University Press

La crisi finanziaria (2008-09) e la crisi dei debiti sovrani (2010-14) sono oramai dietro le nostre spalle. L’economia dell’Unione europea è finalmente in ripresa e le condizioni del mercato del lavoro sono in rapido miglioramento, anche nei tassi di occupazione, che sono ritornati quasi ovunque sui valori precedenti la crisi.

Permangono peraltro alcuni importanti squilibri nell’economia dell’Unione europea che occorre correggere: i tassi d’investimento restano insoddisfacenti (su questo si veda il saggio di Bastasin in questo volume); i conti correnti con l’estero mostrano un largo avanzo (3 per cento del PIL), riflesso di ancor più grandi squilibri tra i paesi membri (l’avanzo della Germania ha superato l’8 per cento del PIL); gli ampi aumenti dei debiti pubblici e privati a seguito delle due crisi devono essere in massima parte ancora riassorbiti e si riflettono in parte nelle elevate sofferenze del sistema bancario (nell’aggregato dell’UE, circa 1 trilione di euro). Resta anche l’eredità di una questione sociale fortemente aggravata dalla crisi, con larghi strati della popolazione lavoratrice inchiodati a redditi troppo bassi e, tra di essi, una quota significativa caduta sotto la soglia statistica della povertà; troppi giovani non lavorano e non studiano, soprattutto nella periferia meridionale. Una questione specifica, poi, si pone riguardo all’Italia, uno dei grandi paesi dell’Unione, che continua ad arrancare dietro gli altri nella crescita, la produttività, l’occupazione, lo stato del bilancio pubblico e le sofferenze bancarie.

La soluzione di questi problemi incontra ancora un ostacolo maggiore nella persistente frammentazione dei mercati finanziari all’interno dell’area dell’euro. La manifestazione visibile della frammentazione è nel divario tra gli interessi che i debitori di alcuni paesi periferici debbono corrispondere ai creditori nei paesi del ‘centro’ virtuoso per ottenere fondi in prestito – il famigerato spread. Lo spread tra i tassi d’interesse riflette la differente percezione della rischiosità dei debitori; quando insorge tra i debiti pubblici, ciò indica la presenza di un elemento di rischio paese, il quale inevitabilmente poi si estende a tutti gli altri prenditori di credito di quel paese, penalizzandone sistematicamente il costo e anche talora la disponibilità di credito (soprattutto per le imprese di minori dimensioni). Un effetto non abbastanza riconosciuto della frammentazione dei mercati finanziari è che, oltre ad impedire il pieno dispiegarsi della politica monetaria espansiva della BCE, essa impedisce il riciclaggio verso investimenti nei paesi periferici degli enormi avanzi finanziari che si stanno accumulando nel centro virtuoso.

Uno spread positivo indica, al fondo, l’esistenza di un rischio di ridenominazione della moneta – percepito o reale, poco importa – cioè la possibilità che i debitori di quel paese a un certo punto rinneghino gli impegni assunti e cerchino di soddisfarli con una nuova moneta nazionale svalutata. Indica anche una situazione sottostante di fragilità finanziaria che può rapidamente trasformarsi in una crisi bancaria e finanziaria, fino alla perdita dell’accesso al mercato internazionale, se gli investitori internazionali vedessero minacce concrete al rimborso pieno dei propri crediti e, quindi, ne avviassero in massa lo smobilizzo. Chi agita lo spauracchio dell’uscita dell’Italia dall’euro deve sapere che una tale scelta passa inevitabilmente per una crisi bancaria e finanziaria di vaste proporzioni (rimando su questo al saggio di Codogno e Galli); l’esperienza insegna che i sistemi democratici possono non sopravvivere a una tale esperienza, particolarmente quando già soffrono di deboli istituzioni e sistemi politici frammentati. Dunque, molte cose restano da fare per porre su più solide basi l’Unione economica e monetaria, ma l’alternativa di abbandonarla appare del tutto irresponsabile.

La tesi che vorrei brevemente esporre in questo saggio è che la strada per avanzare nel completamento dell’Unione economica monetaria è stata compiutamente identificata nel Rapporto dei Cinque Presidenti (d’ora in poi, il Rapporto). Essa si articola in quattro capitoli: una ‘genuina’ unione economica; una unione finanziaria; una unione di bilancio; e infine una unione politica. Va chiarito, al riguardo, che questo cammino non implica, né richiede, la trasformazione dell’Unione in uno stato federale compiuto, ma solo la ‘federalizzazione’ di certe funzioni, necessaria per mettere una volta per tutte l’Unione (l’area euro) al riparo da shock finanziari divaricanti e potenzialmente distruttivi. Non discuto l’aspetto dell’unione politica e della legittimità democratica, già trattato in altri saggi di questo volume.

Si deve partire dall’unione economica per ragioni evidenti: l’esistenza di ampie divergenze di produttività e di costi all’interno della moneta unica costituisce il fattore principale di instabilità e, alla fine, di insostenibilità dell’unione monetaria. Dunque, serve un nuovo processo di convergenza che renda più forti, e anche uniformi, le economie dei paesi partecipanti. Ciò richiede economie flessibili, capaci di adattarsi ai mutamenti della tecnologia e alle sfide della globalizzazione, innovative. Le chiavi per rispondere a queste sfide sono essenzialmente due: massicci investimenti in capitale umano, da un lato; il forte rilancio del mercato interno dall’altro.

Il capitale umano non manca a questa Europa, come non mancano grandi università e centri di ricerca; una adeguata mobilizzazione di queste risorse a favore delle nuove tecnologie e delle loro applicazioni, però, sembra ancora da realizzare. Da questo punto di vista, neanche l’economia tedesca appare sufficientemente innovativa di fronte alle nuove sfide della digitalizzazione; mentre nelle economie periferiche allignano ritardi e distorsioni impressionanti nella qualità dell’insegnamento universitario e post-universitario, nell’allocazione dei fondi di ricerca, nel collegamento tra industria e università, nella formazione al lavoro dei giovani.

Mentre la grande molla per fare ripartire l’investimento non può venire che da un nuovo slancio del mercato interno: smantellando le protezioni, aprendo ai nuovi giocatori, accettando la sfida delle nuove tecnologie. Il ritorno dello statalismo e delle protezioni, denunciato da Sabino Cassese nel saggio di apertura di questo volume, costituisce una minaccia mortale alla possibilità di mantenere il nostro continente su un sentiero di prosperità e di crescita. La mobilizzazione dei fondi europei può contribuire ad accelerare l’investimento nelle interconnessioni tra il mercato delle grandi reti di servizio – energia, trasporti, comunicazioni – dove sono disponibili enormi giacimenti di produttività e innovazione. Gli stimoli dell’apertura dei mercati e della concorrenza possono rimettere in moto l’investimento privato. Mentre in un ambiente chiuso e protetto gli investimenti non partono, le imprese declinano, i posti di lavoro scompaiono.

Il superamento delle divergenze nella produttività e nei costi è compito dei paesi membri, ma, come osservavo, esso è anche condizione fondamentale di coesione e di stabilità dell’unione monetaria. Ciò giustifica la predisposizione di politiche comuni per la convergenza dell’economie, come è avvenuto con il semestre europeo e le raccomandazioni di politica economica. L’istituzione di nuove autorità nazionali per la competitività, già in corso di realizzazione, e il rafforzamento delle procedure per la correzione degli squilibri macroeconomici sono strumenti identificati dal Rapporto per impegnare maggiormente i paesi membri nelle politiche per la convergenza, attraverso una maggiore condivisione (ownership) dell’obbiettivo. Rientrano nell’obbiettivo di convergenza anche una maggiore attenzione agli obbiettivi della coesione sociale, dell’occupazione, soprattutto giovanile, della lotta all’esclusione e alla povertà.

Dice il Rapporto che Le procedure di convergenza dovrebbero essere formalizzate e rese più vincolanti attraverso l’adozione di standard comuni di funzionamento dei mercati del lavoro, la competitività, il contesto per l’attività d’impresa, le pubbliche amministrazioni. Questi standard lasciano ampio margine per differenziare le politiche nazionali e tener conto dei differenti contesti, ma possono aiutare i paesi a misurare in maniera oggettiva i progressi compiuti e le aree dove concentrare gli sforzi. La cosa essenziale da comprendere al riguardo è che senza progressi visibili su questo fronte, ogni avanzamento negli altri pilastri della costruzione è destinato a bloccarsi – perché qui si fondano la stabilità e la prosperità dell’unione monetaria, che deve essere anche economica oppure si romperà. Non è credibile, e alla fine dunque perde tempo, chi invoca la solidarietà e l’allentamento dalle regole comuni perché incapace di adottare comportamenti credibili per la convergenza in casa propria.

Va notata, al riguardo, la discussione che si è aperta sul ruolo del Meccanismo europeo di stabilità (MES), che può condurre ad attribuire a questo organismo compiti rilevanti nella sorveglianza sulle politiche economiche dei paesi dell’area euro – non è chiaro se a complemento o in alternativa del ruolo in materia della Commissione europea, che secondo alcuni paesi membri non applica con il dovuto rigore la disciplina comunitaria.

Il secondo pilastro è l’unione finanziaria, che comprende l’unione bancaria e l’unione dei mercati dei capitali. L’unione bancaria – già in stato avanzato di realizzazione – comprende il meccanismo unico di vigilanza (SSM), quello per la risoluzione delle banche in crisi (SRM, assistito da un Fondo unico di risoluzione, SRF) e l’assicurazione transfrontaliera dei depositi (EDIS). L’SSM e il SRM (con annesso SRF) hanno già contribuito ad affrontare i problemi lasciati nelle banche dalle due crisi finanziarie che hanno investito l’economia dell’Unione. Invece, il negoziato sull’EDIS è bloccato, così come quello sull’istituzione di un meccanismo comune di sostegno di ultima istanza sia per l’EDIS sia per il SRF (sul quale si soffermano Buti e Pench nel loro saggio in questo volume).

La ragione del blocco si riduce a questo: qualche mese fa l’Italia si oppose con successo all’esame da parte dell’Eurogruppo – i ministri delle finanze dell’area euro – di sistemi tesi a promuovere la riduzione dei portafogli di titoli pubblici nei bilanci delle banche, una misura necessaria per attenuare la relazione tra rischi bancari e rischi sovrani, ma che avrebbe ricadute rilevanti soprattutto sulle banche italiane. Il Consiglio ECOFIN allora decise – e scrisse nel suo comunicato finale – che “il negoziato politico [su EDIS] riprenderà non appena vi sarà stato un progresso sulle misure di riduzione dei rischi”; notò anche l’intenzione di alcuni stati membri “di ricorrere a un accordo inter-governativo quando il negoziato politico su EDIS riprenderà”. Come a dire che d’ora in poi si potrà procedere solo all’unanimità – una evidente reazione al fatto che una minoranza di blocco aveva impedito di deliberare a maggioranza qualificata sui meccanismi di riduzione dei rischi. Il Consiglio europeo ha ripreso verbatim la decisione del Consiglio nei suoi comunicati di dicembre 2016 e marzo 2017, reiterando che senza misure adeguate di riduzione dei rischi l’EDIS non può avanzare.

Tali annunci del Consiglio ECOFIN e del Consiglio europeo rendono pubblico il fatto, in caso di shock idiosincratici, non vi sarà solidarietà nella condivisione dei rischi bancari; in altre parole, in caso di bisogno l’Italia potrebbe scoprire di essere sola ad affrontare l’urto dei mercati sulle sue banche. Questo è un aspetto centrale dietro la permanenza di un premio al rischio avverso sulla carta italiana.

Sull’unione di mercati dei capitali ho già detto: la sua realizzazione aprirebbe la porta all’impiego in Italia di enormi capitali oggi ‘oziosi’ generati dagli avanzi correnti della Germania (e dell’Olanda); ma questo non può accadere fintantoché i mercati restano frammentati dal rischio di ridenominazione della moneta. Vale la pena di aggiungere che la piena realizzazione di un mercato dei capitali integrato richiederà l’istituzione di un’autorità di sorveglianza dei mercati centralizzata, come si è fatto per le banche. Le attuali autorità di sorveglianza ESMA (sui mercati dei capitali) ed EIOPA (su Pensioni e Assicurazioni) hanno un vizio d’origine insuperabile nella governance: il fatto che non esista all’interno dei loro Consigli un comitato esecutivo di funzionari indipendenti dalle autorità nazionali, come invece si ha all’interno del Consiglio della BCE. Ciò spiega i limitati progressi realizzati nella convergenza degli standard regolamentari.

Il terzo pilastro dell’Unione economica e monetaria identificato nel Rapporto riguarda l’unione di bilancio. Su questo, il Rapporto lascia pochi dubbi: “la pietra angolare dell’UEM [è costituita] da politiche di bilancio responsabili”. I cardini di questa politica sono la disciplina del Patto di stabilità e crescita – rafforzata dopo la crisi dei debiti sovrani dal Six Pack e dal Two Pack – e il cd. Fiscal Compact, che non è poi altro che la trasposizione nella normativa nazionale del Patto, con norme gerarchicamente sovra-ordinate alla legislazione ordinaria. L’idea che queste norme possano ora esser indebolite nella sostanza è un’idea peregrina: basti ricordare che l’approvazione di queste norme fu condizione chiave per consentire gli annunci di nuovi strumenti della BCE (il programma OMT) che nell’estate del 2012 stabilizzarono i mercati e salvarono la moneta comune. Questi strumenti non sopravvivrebbero a un tale vistoso abbandono della disciplina di bilancio. In effetti, in linea con le raccomandazioni del Rapporto, le Autorità nazionali indipendenti per la sorveglianza sui bilanci pubblici – già istituita anche in Italia – sono state affiancate da un Consiglio di esperti per la sorveglianza sulle politiche di bilancio istituito a livello europeo. Riemerge qui il tentativo di rafforzare la disciplina attraverso nuovi organismi tecnici indipendenti, per la sfiducia che investe anche la Commissione, ora percepita come più ‘politicizzata’, dunque meno indipendente. Se tali meccanismi possano funzionare in assenza di un serio impegno a collaborare delle autorità politiche nazionali resta assai dubbio.

Ciò che invece dovrebbe essere modificabile è l’eccessiva complessità delle regole comuni sui bilanci pubblici. A mio avviso, si dovrebbe ristabilire senza eccezioni il principio del pareggio per i bilanci correnti, lasciando però aperta la possibilità di disavanzi in conto capitale per investimenti capaci di rafforzare la convergenza e il cui rendimento, certificato dalle autorità europee (la Banca europea degli investimenti), risulti superiore al costo finanziario.

I due ingredienti chiave dell’unione di bilancio sono l’istituzione di una ‘capacità fiscale’ dell’area euro e l’emissione di uno strumento di debito ‘sicuro’ da parte di un Tesoro europeo. Sul primo aspetto si dilungano Buti e Pench nel loro saggio in questo volume e non devo ritornare. Sul secondo mi limito a notare che un sistema finanziario nel quale sia pienamente ristabilita la regola di Maastricht del “no bail out” (Articolo 125 TFEU), e nel qual3 quindi i debiti pubblici degli stati diventino rischiosi in quanto soggetti al rischio di ristrutturazione, ha bisogno per funzionare di uno strumento di debito pubblico ‘sicuro’, cioè garantito collegialmente da tutti gli stati membri dell’area euro, emesso al livello federale – in pratica dal MES. Un eurobond, per intendersi, che consenta anche di condividere una parte dei rischi sovrani, ma in un ambiente di stabilità finanziaria e di disciplina di bilancio che assicuri che esso non diventi uno strumento né per consentire politiche di bilancio lassiste, né per istituzionalizzare stabili trasferimenti tra gli stati membri.

"Europa sfida per l'Italia"

L'autore

Stefano Micossi è Presidente del comitato scientifico della Luiss School of European Political Economy e Direttore generale di Assonime.


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