Delitto, ma quale castigo? Diritto penale e carceri in Italia
29 marzo 2017
Nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Corte europea di Strasburgo per aver violato l’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo, che sancisce il divieto per gli Stati di sottoporre gli individui a trattamenti inumani e degradanti. Il problema è tanto giuridico quanto etico: alcuni dati dimostrano infatti che le condizioni di vita all’interno delle prigioni italiane sono critiche e gravemente al di sotto di standard accettabili.
La principale difficoltà è il sovraffollamento, con migliaia di detenuti in più rispetto alla capienza effettiva delle carceri. Si tratta di una situazione che impone un intervento tempestivo, a cui si sta tentando da qualche anno ormai di porre rimedio, senza tuttavia riuscire a trovare una soluzione definitiva. In questa direzione, una proposta di ripensamento del sistema sanzionatorio penale viene da Paola Severino, Antonio Gullo e Cinzia Caporale, su invito della Fondazione Veronesi.
La loro tesi è che la detenzione debba essere considerata come ultima risorsa e che vadano cercate vie alternative al carcere. Ciò comincia già ad avere riscontro al livello legislativo, con la delineazione in Parlamento di ambiti penali per cui non sia più prevista la reclusione, limitando la sanzione alla detenzione domiciliare. Questa andrebbe tuttavia resa accessibile a tutti (anche a chi non ha una casa o non possa concretamente utilizzarla) e dovrebbe essere abbinata, quando possibile, con attività volte alla reintegrazione sociale.
Si tratta di un primo passo verso quello che potrebbe essere l’abbandono di un’idea corporale della pena, quando non vi sia reale necessità o efficacia, per delineare una più ampia gamma di sanzioni (ad esempio, lo svolgimento di lavori di pubblica utilità e l’affidamento ai servizi sociali) che abbinino alla componente punitiva anche un aspetto risocializzante, volto cioè a favorire l’inserimento dell’individuo in un contesto lavorativo e sociale. Naturalmente, questa prospettiva richiede sia un forte equilibrio da parte del giudice in fase di comminazione della pena, che la presenza di un giudice di sorveglianza durante lo svolgimento di quest’ultima.
Questo processo non solo potrebbe risolvere i problemi critici della condizione detentiva in Italia, ma rappresenterebbe anche un miglioramento complessivo del sistema della Giustizia italiana e della tutela dei diritti di tutte le persone. Tuttavia, dovrebbe essere accompagnato da un dibattito che sensibilizzi l’opinione pubblica sul valore etico dei principi che animano questa proposta.
Newsletter
Articoli correlati
Un’altra vittima della pandemia: l’udienza penale di appello
12 novembre 2020
La modifica da parte del Governo, seppur provvisoria, del giudizio penale di appello suscita alcune riflessioni. Il punto di Maria Lucia Di Bitonto
Il “caso Davigo” è solo l’inizio di una riflessione sulla natura del CSM
22 ottobre 2020
Dall’obbligatorio collocamento a riposo dell’eminente componente della magistratura trae spunto Giovanni Piccirilli per definire le contraddizioni interne a quest’organo
Come la Corte costituzionale sta rivoluzionando il fine vita in Italia
3 ottobre 2020
Un’analisi ragionata del caso di Davide Trentini, morto in una clinica Svizzera, e delle motivazioni con cui la Corte di Assise di Massa ha assolto Marco Cappato e Wihelmine Schett che lo hanno aiutato a morire. Una rivoluzione del Codice penale (e del reato di istigazione o aiuto al suicidio) che nasce da alcune recenti scelte della Consulta.
12 settembre 2020
“Un maggiore finanziamento della Giustizia non solo risponde a esigenze primarie, fortemente avvertite dai cittadini come attuazione di diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione, ma rappresenterebbe un investimento anche economicamente apprezzabile”. L’analisi di Paola Severino sui parametri impiegati dal nostro paese per misurare la corruzione.