Il fascino discreto della magistratura. La filosofia di Giovanni Falcone, 25 anni dopo Capaci
23 maggio 2017
Giovanni Falcone era un uomo abitudinario. Negli anni che trascorse a Roma, lavorando con il Ministero di Grazia e Giustizia, una delle consuetudini che preferiva era tornare a Palermo nel fine settimana. Il 23 maggio del 1992, Falcone era alla guida della sua auto sull’autostrada A29, dall’aeroporto di Punta Raisi – oggi intitolato a lui e al suo collega Paolo Borsellino – quando Giovanni Brusca fece esplodere mezza tonnellata di esplosivo nascosto in un canale sottostante la strada, uccidendo il giudice, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti di polizia Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
All’inizio degli anni ’80 del ventesimo secolo, Falcone inventò con Rocco Chinnici una nuova consuetudine lavorativa, secondo la quale i procuratori dovevano unirsi a una squadra, detta “pool”. Ufficialmente, ciò era fatto allo scopo di condividere, e mantenere segrete, le informazioni raccolte durante le difficili indagini sulle connessioni nazionali e internazionali della mafia. Un motivo non ufficiale era consentire la prosecuzione del lavoro investigativo anche qualora uno dei magistrati fosse stato assassinato.
Un altro celebre pool di magistrati, nella vita politica italiana, fu quello di Milano – la cosiddetta troika anticorruzione – formata da Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, coordinata da Gerardo D’Ambrosio e guidata da Francesco Saverio Borrelli. L’azione del pool si concretizzò nella serie di processi su casi di corruzione in politica oggi divenuta famosa come “Mani Pulite”. Anche questa inchiesta iniziò nel 1992. Per molti osservatori italiani e stranieri, la morte di Falcone, seguita poco tempo dopo dall’uccisione di Paolo Borsellino, e Mani Pulite costituiscono un punto di svolta nella storia politica italiana: l’inizio della cosiddetta Seconda Repubblica.
La morte di Falcone, tuttavia, contribuì a formare uno specifico schema mentale generazionale. Le generazioni di italiani che iniziarono la propria vita adulta all’inizio degli anni ’90 del ventesimo secolo condividevano un pregiudizio positivo nei confronti di giudici e magistrati. Dopo molti anni di controversie, fallimenti, errori giudiziari e abusi procedurali, i giudici rimangono, agli occhi di molti italiani, il simbolo dell’unica, possibile difesa contro gli abusi della politica e i comportamenti immorali dei politici.
Sul piano personale, Falcone rifiutò di connotare politicamente la lotta alla mafia, dichiarando piuttosto che i procedimenti e i processi dovevano concentrarsi sugli aspetti legali dei comportamenti scorretti e dei crimini, lasciando fuori ogni possibile ripercussione politica e morale. Tutto ciò non rappresentava una forma di agnosticismo sulle questioni morali o politiche, ma costituiva piuttosto la conseguenza logica della necessità, avvertita chiaramente da Falcone, della divisione dei poteri in un regime liberal-democratico.
Questo punto di vista equilibrato si è largamente perso dopo la trasformazione di Falcone in un simbolo, ed è rimasta soltanto una generale predisposizione positiva nei confronti dei giudici. Nel ricordare il suo sacrificio, e la storia più recente della mentalità italiana, potrebbe valere la pena ritornare sulle più profonde intuizioni filosofiche di Falcone sul principio di legalità e il ruolo della magistratura.
Una lunga riflessione di Gianfranco Pellegrino su questi temi può essere letta nell’articolo estratto dal suo libro Etica pubblica: “Etica pubblica e caso italiano: fra politica e antipolitica”, disponibile in download gratuito.
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