Morte di un assassino: Stato, giustizia reale e giustizia simbolica

29 giugno 2017
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C’è un diritto alla morte dignitosa, come c’è un diritto alla vita dignitosa? E morire in carcere è una pena giusta, quando la si infligge al capo – ancora riconosciuto come tale, e lontano da ogni ravvedimento – di un’organizzazione criminale come la mafia? Lo Stato democratico deve rispondere ai suoi nemici ripagandoli della stessa moneta, o ha doveri che vanno oltre la mera retribuzione, oltre la lex talionis, nonostante i rischi che questi doveri potrebbero comportare? Non è facile decidere su questioni del genere – e poco c’entrano le reali condizioni di salute di Totò Riina (mentre sono ovviamente rilevanti le sue capacità di esercitare ancora un ruolo criminale): se non è dignitoso morire in carcere, non importa che si muoia di morte naturale o di malattia. La discussione riguarda piuttosto l’ammissibilità morale dell’ergastolo. Ma la questione sono anche i simboli: il funerale di Riina, ritornato libero, magari nella sua Corleone, avrebbe sicuramente una forza simbolica che i mafiosi non mancherebbero di utilizzare. Il problema è, allora: fa parte della giustizia anche lottare contro quest’uso perverso dei simboli? Contrapporre simbolo a simbolo?

Immaginate un mondo ideale – non necessariamente un’età dell’oro dove nei fiumi scorra latte e miele, dagli alberi pendano frutti abbondantissimi e facili da cogliere, e dove tutto sia abbondante e a disposizione di ognuno; non necessariamente un mondo senza paradiso o inferno, ma con un paradiso in terra, senza confini e senza ragioni per uccidere, senza guerra. Basta un mondo dove la scarsità di risorse non sia tale da rendere difficile per ognuno una vita decente e dove gli esseri umani abbiano la volontà e la forza di rispettare leggi morali elementari come la reciprocità e la benevolenza.

In un mondo del genere non servirebbe una virtù come la giustizia – almeno se la s’intende come un rimedio per i torti e le ingiustizie frequenti in un mondo dove gli esseri umani, o la maggior parte di loro, non rispetta le leggi morali elementari. La giustizia serve per un mondo non ideale – per un mondo dove l’ingiustizia è una possibilità reale. La giustizia è un rimedio per l’ingiustizia. E mentre di mondo ideale ce n’è uno solo, di mondi non ideali ce ne possono essere molti – dal mondo di lievi ingiustizie dell’Occidente più avanzato al mondo di grandi ingiustizie del Sud del mondo, giù giù per molti livelli di ingiustizia e sfortuna.

Le leggi sono uno strumento di giustizia, e come la virtù della giustizia servono a rettificare le ingiustizie di un mondo non ideale. E per questo dipendono dai livelli di ingiustizia del mondo in cui si applicano. Principi come l’eguaglianza di fronte alla legge possono avere eccezioni – ci sono leggi speciali, come ad esempio le leggi contro il terrorismo interno o internazionale. Ci sono casi speciali, in cui pure le leggi più importanti si possono trasgredire. La violenza non viene giudicata allo stesso modo se commessa durante la Resistenza a un regime ingiusto o durante l’ordinaria vita civile, e c’è differenza se la violenza viene perpetrata da un privato cittadino o da un funzionario dello Stato – per esempio, se un funzionario dello Stato infligge violenza gratuita, in un regime democratico, a un cittadino trattenuto nei locali di pubblica sicurezza, si tratta di tortura; se lo fa un privato cittadino, in locali privati, si tratta di lesioni private, e forse la prima violenza è più grave della seconda; ma la violenza che consiste nel rinchiudere i corpi all’interno di mura è talvolta giustificata, quando viene esercitata dalle forze di polizia di uno Stato democratico, in nome della legge.

Tutte le leggi speciali  (ma forse tutte le leggi penali) sono risposte a una situazione di emergenza. Capire se si tratta delle risposte giuste è esercizio difficile, che dipende da fattori empirici. Ma dovrebbe valere un criterio di proporzionalità morale: più è la distanza fra il mondo in cui viviamo e quello ideale, più sono giustificate leggi speciali, deroghe ai principi di benevolenza e di umanità. Ma non appena quella distanza si fa minore, anche di poco, si deve prontamente rinunciare a severità speciali, rientrando nell’orizzonte dell’umanità e del rispetto.

È solo la capacità di Riina di esercitare un ruolo positivo nelle vicende e nelle azioni della criminalità mafiosa che possono giustificare la sua detenzione in regime di 41 bis e per tutta la vita. (E, peraltro, il regime carcerario previsto dal 41bis è temporaneo: una cosa è l’ergastolo, un’altra il regime di carcere duro.) L’idea stessa di una detenzione umana e dignitosa è contraddittoria. È ovvio che privare qualcuno della sua libertà non sia un trattamento umano e dignitoso: poi ci possono essere valori che vanno oltre il singolo, per esempio la libertà degli altri e la sicurezza dello Stato. Ma, a meno di non avere una concezione che è inevitabilmente prossima alla legge del taglione, il carcere è sempre una misura speciale, emergenziale, una misura che – come ripetutamente affermato da Luigi Manconi e Stefano Anastasia, in molti libri – dovrebbe essere usata sempre di meno. E questo vale per tutti – anche per un criminale una volta pericolosissimo, e se, e solo se, egli non lo è più. La morte in carcere di Bernardo Provenzano, in stato di semi-incoscienza, è servita alla lotta alla mafia? Forse sì, in termini di simboli. Ma una democrazia deve utilizzare gli stessi simboli dei propri nemici?

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