L’impatto della crisi economica sulle democrazie dell’Europa meridionale
10 luglio 2017
Estratto dal nuovo libro di Leonardo Morlino e Francesco Raniolo
“The Impact of the Economic Crisis of Southern European Democracies”
© 2017 Leonardo Morlino, Francesco Raniolo
Riprodotto per gentile concessione di Palgrave Macmillan
Com’è possibile che un fenomeno congiunturale, quale la crisi economica è di solito considerata, possa avere conseguenze politiche durature? E se è questo il caso, quali sono le conseguenze che dobbiamo analizzare con maggiore profondità e dettaglio? Quali meccanismi sono in atto, e come spiegarli? Per affrontare tali questioni, vogliamo concentrarci sulla crisi europea, iniziata nel 2007, soprattutto negli Stati Uniti d’America, e proseguita nel 2008, ancora negli Stati Uniti e in Europa, e che in certi paesi è protratta almeno fino al 2014. In questo lasso di tempo abbiamo osservato come la crisi abbia colpito tutti i principali canali di espressione politica che una democrazia ha a disposizione. Ma la prima ed ovvia domanda è: quali sono i principali risultati della ricerca su questo tema fino ad ora?
Iniziamo dall’opinione comunemente accettata secondo la quale una crisi economica incide profondamente su una democrazia. Questo, in passato, è talora avvenuto in modo drammatico, con la caduta di un regime democratico, o quasi democratico, e l’instaurazione di un regime autoritario o addirittura totalitario, come nel caso della Germania. Nel corso del secolo scorso, le crisi economiche sono anche state all’origine di altri cambiamenti radicali, ma anche di trasformazioni relativamente moderate e parziali. Pensiamo per esempio, al cosiddetto New Deal, negli Stati Uniti, o anche all’integrazione democratica dei partiti socialisti nordeuropei come conseguenze politiche della crisi nei primi anni ’30 del ventesimo secolo; alla parziale creazione e alla diffusione dello stato sociale nella maggior parte delle democrazie europee come risultato della crisi derivante dalle distruzioni del secondo conflitto mondiale; allo sviluppo degli accordi neo-corporativisti, completato dallo sviluppo delle politiche di privatizzazione e deregulation alla fine degli anni ’70, come a un modo per rispondere alla crisi di quegli anni e per aprire la strada al suo superamento.
Ad ogni modo, il modo in cui questo problema è analizzato cambia non appena possiamo dare per assodato che esiste un’ampia e profonda legittimazione della democrazia come forma di governo dominante nel mondo, il che sembra già in atto, in particolare in seguito al consolidamento delle democrazie nell’Europa meridionale e nell’America Latina, e poi nell’Europa orientale alla fine degli anni ’80 del ventesimo secolo, dopo la caduta del muro di Berlino, e a quanto accaduto in altri casi specifici in aree-chiave del mondo, ad esempio il Sud Africa, la Corea del Sud o Taiwan. In questa prospettiva si può affermare che la crisi economica iniziata nel 2008 in Europa ha avuto luogo in un contesto politico nuovo, e in una parte di mondo dove non esisteva più alcun rischio di abbattimento della democrazia. Di conseguenza, la questione da affrontare è la seguente: come analizzare l’impatto della crisi del 2008 in questo nuovo contesto politico e culturale?
Oltre a numerosi articoli e libri scritti dagli economisti sulla crisi del 2008, è importante prendere in considerazione l’impatto politico che la crisi economica ha avuto, prima di tutto sulle elezioni, con particolare riguardo al modo in cui i temi economici hanno assunto un ruolo dominante per i votanti; poi, sui partiti in carica e come siano stati penalizzati; ancora, sulle politiche di welfare con i tagli netti allo stato sociale in un gruppo specifico di paesi, come l’Europa meridionale.
Nella letteratura ormai esistente la posizione maggiormente ricorrente sulla “Grande Recessione” del 2008 è quella espressa da N. Bermeo e L. M. Bartels, (nel saggio Mass Politics in Tough Times, 2014), che riconoscono il cambiamento nel comportamento dei votanti e la “punizione” dei leader e dei partiti in carica, ma al tempo stesso sottolineano che le reazioni, e perciò l’impatto, sono state alquanto limitate. In altri termini, il tutto sembra limitarsi a un cambiamento temporaneo del voto e a qualche limitata protesta. Da questa prospettiva, un’analisi socio-economica del fenomeno, come ad esempio quella condotta da M. Kahler e D. A. Lake (Politics in the New Hard Times: The Great Recession in Comparative Perspective, del 2013), è persino più radicale. Infatti, questi studiosi iniziano affermando che “la Grande Recessione… è la peggior crisi che abbia colpito l’economia occidentale dai tempi della Grande Depressione degli anni ‘30”, ma poi proseguono poi sottolineando che “malgrado gli effetti negativi sui governi in carica, la crisi economica ha fornito alcuni segni di fondamentale riallineamento della politica, sperimentazioni politiche … o mobilitazione da parte di nuovi attori politici … non sono emersi né un nazionalismo economico rampante né una grave erosione della collaborazione internazionale”.
La nostra ricerca sui quattro paesi del Sud Europa, forse perché effettuata in anni successivi, dimostra invece: 1) la crescente incertezza e destrutturazione dei sistemi partitici, difficoltà del bipolarismo e salienza di nuovi cleavages; 2) la crisi delle strutture di intermediazione degli interessi, fine della concertazione e crescita della partecipazione non convenzionale; 3) la radicalizzazione della competizione e comparsa di nuovi partiti di protesta. In particolare, quest’ultimo è forse uno degli aspetti più rilevanti e controintuitivi del nostro lavoro. Infatti, viene comunque ribadita la centralità dei partiti politici, in tempi di crisi, nelle democrazie del Sud Europa, anche con la creazione di nuovi partiti di protesta o neopopulisti che attraggono le preferenze di elettori “risentiti e insoddisfatti”.
Su questi aspetti sarebbe opportuno riflettere a fondo traendone tutte le conseguenze politiche che si riterranno necessarie.
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