Un bilancio unico per l’eurozona. Per fare cosa? E come?

27 luglio 2017
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L’idea di predisporre un bilancio unico per l’eurozona circolava già da un po’ tra gli economisti europei, ed è oggi tornata nell’agenda politica a seguito dell’elezione a presidente di Emmanuel Macron. Finora, tuttavia, la visione europea del nuovo presidente non è del tutto chiara, e sembra perciò utile provare a capire cosa servirebbe per rendere il bilancio europeo uno strumento efficace e utile.

Anche se nessuno ha mai ritenuto che l’eurozona fosse un’area valutaria ottimale, in molti, tra economisti e policy makers, hanno a lungo pensato che l’enfasi su flessibilità dei mercati e sugli obiettivi nominali (inflazione, deficit e così via) che caratterizzano le istituzioni europee sarebbero bastati a far sì che le economie dell’eurozona convergessero, sia in periodi di forte crescita che di crisi. Non era nient’altro che un’illusione; alcuni lavori disponibili fin dai primi anni ’90 del ventesimo secolo mostravano come, persino in un paese molto “flessibile” come gli Stati Uniti, i trasferimenti tra stati operati tramite il bilancio federale hanno contribuito ad assorbire più di un terzo degli shock asimmetrici.

Nell’Unione Europea esistono già dei trasferimenti piuttosto significativi. I fondi strutturali hanno l’obiettivo di consentire la convergenza dei redditi pro-capite. Di conseguenza, i trasferimenti vengono effettuati dalle regioni più ricche a quelle più povere, indipendentemente dalla posizione ciclica dei singoli paesi. I fondi strutturali, pertanto, non possono essere utilizzati per assorbire le fluttuazioni cicliche, e porre fine alle divergenze tra i paesi derivanti dagli shock asimmetrici.

Nel 2015, il rapporto dei cinque presidenti ha stabilito i principi da seguire nel tentativo di assorbire gli shock asimmetrici. Il bilancio dell’eurozona, si dice a pagina 15:

  1. Non dovrebbe portare a trasferimenti permanenti tra i paesi o a trasferimenti unidirezionali […] Non dovrebbe, inoltre, essere concepito come strumento per garantire la convergenza di lungo periodo tra gli Stati Membri.
  2. Non dovrebbe mettere a repentaglio gli incentivi per una politica fiscale responsabile a livello nazionale, né servire come scusa per non correggere le debolezze strutturali dei singoli paesi. Il suo utilizzo dovrebbe, in sintesi, essere condizionato al rispetto delle regole fiscali esistenti.
  3. Dovrebbe essere innestato nel quadro normativo dell’Unione Europea. Ciò garantirebbe la coerenza con l’attuale impianto fiscale europeo e con le procedure per il coordinamento delle politiche economiche. […]
  4. Non dovrebbe essere uno strumento per gestire le crisi, in quanto tale funzione è già svolta dal Meccanismo europeo di stabilità (MES).

Così, il rapporto delinea le caratteristiche di un bilancio federale: deve stabilizzare gli shock asimmetrici in tempi normali, avere costi nulli nel medio periodo (nessun trasferimento permanente) e non deve servire a risollevare l’economia in caso di grandi crisi. Infine, per prendere in considerazione la specificità della cornice istituzionale europea, che potrebbe essere definita una “federazione economica senza federazione politica”, il bilancio dell’eurozona non dovrebbe ostacolare il funzionamento delle norme di bilancio che regolano gli Stati membri (indipendentemente dal fatto che queste norme siano utili ed efficaci). Dal momento della pubblicazione del rapporto dei cinque presidenti, la discussione ha messo in evidenza un quinto criterio, piuttosto consensuale. In conformità con il principio secondo cui “non ci deve essere tassazione senza rappresentanza”:

  1. Dovrebbe esserci controllo democratico sull’autorità che gestirebbe il bilancio (il “ministro delle finanze” europeo).

Questo principio è stato fatto proprio dalla Commissione nel suo più recente Documento di riflessione sulla governance europea (giugno 2017), dove è esplicitamente discussa la necessità di rafforzare la responsabilità parallelamente alla costruzione di una capacità fiscale comune.

Infine, ma altrettanto importante, il tesoro dovrebbe essere dotato di risorse proprie (Eurobond? Una corporate tax europea?), in modo tale che la stabilizzazione possa essere attuata non solo in caso di shock asimmetrici (positivi in alcuni Paesi e negativi in altri), ma anche nel caso di shock simmetrici di differente intensità (De Grauwe e Ji, 2016).

Un sussidio di disoccupazione europeo come stabilizzatore automatico

Numerosi governi europei, così come la Commissione già nel 2013, hanno proposto un’indennità di disoccupazione europea, che potrebbe contribuire alla stabilizzazione di economie colpite da shock asimmetrici. La gestione di questa indennità potrebbe essere tra le attribuzioni del ministro delle finanze europeo. Beer et al. (2014) discutono le questioni che un sussidio di disoccupazione europeo solleverebbe, tra cui è particolarmente importante la difficoltà del coordinamento con le politiche nazionali di welfare. Gli autori sostengono che vi sia consenso in letteratura sul fatto che, se tale piano fosse stato messo in pratica durante la crisi, avrebbe avuto un effetto stabilizzante significativo su PIL e redditi. Non è sorprendente, la conclusione che tale impatto sarebbe dipeso dalla struttura del piano e dalla sua integrazione con i programmi nazionali.

D’altra parte, i lavori citati da Beer et al. raggiungono un accordo anche sul fatto che sarebbe difficile rispettare il primo criterio, la neutralità fiscale. Se il piano fosse stato attivo dal 1999, i paesi del core dell’eurozona sarebbero stati contribuenti netti. Ciò è dovuto al fatto da un lato, che la disoccupazione strutturale è assai più elevata nei paesi meridionali e, dall’altro, che la risposta nel breve periodo della disoccupazione agli shocks (il cosiddetto coefficiente di Okun) è differente. Concentrarsi sulla disoccupazione di breve periodo, come fanno la maggior parte delle proposte sul tavolo, risolverebbe il primo problema ma non il secondo. Per salvaguardare la neutralità rispetto ai costi il meccanismo dovrebbe consentire compensazioni ex-post (i “clawback”), o periodici cambiamenti dei parametri del piano stesso; ma entrambe queste opzioni complicherebbero parecchio il suo funzionamento.

Beni pubblici europei

Diverse proposte, come ad esempio quella avanzata dal governo italiano, assegnano al ministro delle finanze dell’eurozona il compito di fornire “beni pubblici europei”, cioè quei beni di competenza dello Stato che hanno una dimensione “federale”. Ad esempio, gli investimenti pubblici transnazionali, per i quali si potrebbero evitare schemi barocchi come il piano Juncker, ma anche la gestione a livello europeo delle politiche migratorie, che oggi restano responsabilità di pochi Paesi.

Razionalizzare e organizzare la fornitura di beni pubblici a livello europeo avrebbe effetti positivi sulla crescita, e aumenterebbe la produttività, specialmente considerando le economie di scala che caratterizzano determinati settori, come la transizione ecologica e la crescita sostenibile.

Di per sé, l’investimento pubblico non porterebbe alla stabilizzazione ciclica e al riassorbimento di choc asimmetrici, in quanto legato a bisogni strutturali. Tuttavia, nulla impedirebbe al Ministro delle finanze europeo di impiegarlo utilizzare anche questa leva ai fini della stabilizzazione, secondo due modalità:

  1. Nel modo più diretto possibile, mentre pianificazione e valutazione dei bisogni in termini di investimento dovrebbero rimanere strutturale e pluriennale (caratteristica intrinseca degli investimenti), il Ministro avrebbe qualche margine nella gestione del budget nel breve periodo. Nulla gli impedirebbe di anticipare o ritardare spese in un dato Paese/settore, in base alle condizioni cicliche, assicurandosi al contempo che questa modulazione delle spese sia conforme al piano di lungo periodo.
  2. Indirettamente, trasferendo al livello centrale una parte delle spese in investimenti che sono oggi effettuate dai governi nazionali, il budget europeo libererebbe risorse per i Paesi membri, che potrebbero essere impiegate per la protezione sociale e per la stabilizzazione ciclica.

Naturalmente questo solleverebbe una questione importante e, nella attuale situazione di paralisi istituzionale, una potenziale difficoltà. L’esistenza di un budget complessivo richiederebbe che le competenze fiscali dei governi fossero ridefinite e condurrebbe a un ripensamento delle attuali norme fiscali (il Patto di stabilità e il Fiscal Compact).

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