I terroristi di fronte alla violenza: paura e viltà
22 agosto 2017
Attraverso uno studio microsociologico di 35 omicidi, Alessandro Orsini – esperto internazionale di terrorismo – analizza il modo in cui i terroristi cercano di tenere sotto controllo il flusso di adrenalina che scorre nei loro corpi mentre uccidono le loro vittime. Le sue conclusioni rivelano che, nel compiere tali crimini, gli attentatori non erano mossi da coraggio, ma al contrario agivano in una condizione di paura, commettendo atti di violenza vile. Le vittime venivano infatti colpite solo quando colte in situazioni disperate, cioè senza possibilità di fuga o capacità di difesa.
La ricostruzione – attraverso interviste, autobiografie e testimonianze – di come gli attentati sono stati pianificati e messi in atto mostra un’organizzazione lucidamente mirata a creare le condizioni perfette per sferrare l’attacco nel momento più sicuro per l’attentatore. Questo implica anche la riduzione della tensione causata da scontri fisici e colluttazioni, cioè della paura di uccidere e di essere uccisi. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i terroristi si confrontano costantemente con la paura e per aver successo nelle loro azioni devono minimizzare i rischi di contrattacchi e di reazioni impreviste. L’insorgere di conflitti violenti genera infatti stati di tensione emotiva, che possono risultare in un calo della lucidità e in un inferiore controllo dei movimenti corporei, compromettendo l’efficacia dei gesti compiuti.
La forza fisica risulta pertanto meno importante, in un confronto violento, della capacità di ridurre le limitazioni emotive e la paura: le ideologie crollano di fronte alla paura degli individui, naturalmente spaventati dinnanzi all’eventualità di essere uccisi o sopraffatti. Nel caso dei terroristi appartenenti all’estrema sinistra italiana, questa tensione emotiva è risolta principalmente in due modi: l’uno consiste nel mettere in condizioni di debolezza la vittima, cioè nel colpirla in gruppo e quando è da sola; l’altro nella dissimulazione, cioè nel celare e non far capire le proprie intenzioni alla vittima, in modo da eliminare ogni possibilità di reazione.
Lo studio di Orsini è condotto sulla base di una notevole abbondanza di fonti primarie e secondarie, tra cui le testimonianze degli stessi terroristi. L’autore ha saputo concedere ai terroristi che ha incontrato spazio sufficiente affinché si raccontassero, ma senza lasciare che le loro storie prendessero il sopravvento, in interviste semi-strutturate, cioè da lui condotte lasciando che i terroristi parlassero liberamente, attendendo il momento migliore per introdurre le proprie domande. Si è trattato evidentemente di un lavoro molto delicato, condotto in una prospettiva sociologica e non psicologica, che è servito a raggiungere la domanda fondamentale: come si sono sentiti i terroristi nel momento in cui hanno sparato a una persona completamente indifesa?
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