Il referendum catalano, la democrazia e il diritto alla rivoluzione

2 ottobre 2017
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La vicenda del referendum catalano mette in campo due questioni: innanzitutto, il problema della legalità e della democrazia – secondo il governo centrale spagnolo il referendum non sarebbe legale, ma andrebbe contro la Costituzione vigente –; in secondo luogo, il problema dell’indipendenza e dell’autodeterminazione – secondo molti i catalani avrebbero un diritto all’indipendenza, cioè a un’autonomia maggiore di quella che hanno, e chi ha promosso il referendum intendeva sollecitare un pronunciamento plebiscitario in questa direzione. L’intersezione fra le due questioni ne genera una terza: se il referendum è illegale, allora l’indipendenza richiesta, ed eventualmente realizzata, diventa non tanto un nuovo ordinamento costituzionale democraticamente sancito di una realtà statale che si divide o realizza sfere di autonomia, ma si può considerare una vera e propria secessione unilaterale e non consensuale – secessioni consensuali sono per esempio quella della Norvegia dalla Svezia nel 1905 o quella del Quebec ammessa da un giudizio della Corte suprema del Canada nel 1998.

Secondo alcuni, per esempio Cass Sunstein, un diritto alla secessione non può essere riconosciuto da una Costituzione, perché questo significherebbe incoraggiare le minoranze dissenzienti a secedere o a minacciare di farlo, invece che a partecipare al gioco democratico per far prevalere le loro idee. Allen Buchanan ha suggerito un diritto di secessione reso più difficile da vincoli supermaggioritari e di altro tipo, come nel caso della revisione costituzionale.

Nella filosofia morale e politica c’è stata, abbastanza di recente, una discussione sull’etica della secessione, cioè sulle ragioni morali che possono portare una parte della popolazione a secedere. Le migliori teorie del diritto di secessione, come si vedrà, non giustificano le aspirazioni secessioniste dei catalani.  Per alcuni, il diritto alla secessione è paragonabile al diritto alla rivoluzione – cioè al diritto di ribellarsi quando i governanti abbiano violato in maniera estrema e sistematica i diritti umani fondamentali dei cittadini, diritti di cui può anche far parte, secondo Allen Buchanan, il diritto di una minoranza a ottenere procedure legali di autodeterminazione compatibili con la sovranità nazionale. In questa teoria, la secessione costituisce l’extrema ratio contro ingiustizie gravi e persistenti: si tratta di un rimedio a precedenti ingiustizie, una sorta di secessione per giusta causa.

Per altri autori, invece, un gruppo può staccarsi dalla madrepatria per rivendicare un diritto primario – come il diritto all’autodeterminazione in quanto gruppo etnico o culturale (i popoli o le nazioni, uniti da un’etnia o da una cultura condivisa, hanno diritto ad avere un proprio Stato), o quello derivante dalla volontà comune (gruppi che autonomamente decidano, con procedure democratiche maggioritarie o plebiscitarie, di separarsi dalla madrepatria hanno diritto di farlo). In questo tipo di teorie, il diritto alla secessione non deriva da una precedente ingiustizia, dalla violazione di un diritto, bensì è un diritto originario, o comunque connesso a diritti come l’autodeterminazione o l’autonomia.

I secessionisti catalani, o almeno quelli che hanno convocato il referendum, probabilmente presuppongono questo tipo di teoria. Naturalmente, c’è il legittimo dubbio che il governo spagnolo, con il suo comportamento degli ultimi giorni, possa rendere vera la teoria del diritto alla secessione come rimedio – cioè possa commettere gravi violazioni dei diritti umani dei catalani che rendano giustificata una secessione che prima non lo era.

Per dare una valutazione anche sommaria di queste due teorie bisogna riflettere su un punto. La sovranità – sia quella dello Stato originario, sia la nuova sovranità dell’entità che intende secedere – si esercita su un territorio, è diritto alla giurisdizione esclusiva su un certo territorio. La secessione, in un certo senso, è la richiesta di esercitare una giurisdizione esclusiva su un certo territorio, soppiantando la giurisdizione dello Stato centrale.

La giurisdizione dello Stato su un territorio non è un dato primario: essa va giustificata. Una giustificazione possibile è questa: il monopolio esclusivo della giurisdizione su un territorio serve allo Stato a garantire certi diritti umani – la sicurezza innanzitutto – ai propri cittadini. Ma se è così, è ovvio che uno Stato che si macchi di gravi violazioni dei diritti umani contro un gruppo di cittadini perde il diritto alla giurisdizione sul territorio occupato da tale gruppo – e quindi la secessione diventa giustificata come rimedio alla violazione dei diritti dei secessionisti. Ma, come già detto, i catalani non possono rivendicare questo tipo di giustificazione per la loro secessione – il loro diritto all’autodeterminazione, in quanto gruppo etnico o culturale, o in quanto comunità di votanti, può giustificare tutt’al più l’indipendenza e l’autonomia all’interno di un quadro di legalità che rispetti la sovranità spagnola. Una cosa che la teoria della secessione come rimedio ci ricorda è che, prima di staccarsi unilateralmente dalla madrepatria, gruppi e nazioni hanno molte strade per perseguire la propria autodeterminazione.

Si potrebbe obiettare che, al di là di tutto questo, è ovvio che la volontà democratica si debba estendere anche ai confini – è il demos democratico che stabilisce i propri confini, in fondo. Se, anche in assenza di violazioni gravi dei diritti umani, un certo gruppo vuole staccarsi da un altro, non si vede perché questo non si debba concedere. Ma, a ben riflettere, quello che si concederebbe è che un gruppo, solo perché risiede in un certo territorio dello Stato, determini con la sua volontà il comportamento e la condizione del resto dei propri concittadini: i catalani, solo perché abitano in Catalogna, e solo perché votano in un certo modo, determinerebbero i confini della Spagna.

Ovviamente, tutta un’altra cosa sarebbe se il referendum avesse riguardato tutti i cittadini di Spagna – catalani e castigliani, o altri cittadini dello Stato spagnolo: la secessione bilaterale si può ovviamente fondare sul consenso democratico. Una teoria plebiscitaria della secessione unilaterale, invece, non riesce a spiegare perché un certo gruppo abbia diritto ad esercitare una giurisdizione all’interno di un territorio: se il governo spagnolo protegge i diritti umani dei catalani, non si vede perché non avrebbe titolo ad esercitare il potere in Catalogna. Ma se il governo centrale spagnolo prende il referendum come pretesto per violare o non proteggere i diritti umani in Catalogna, ovviamente la questione cambia – e la secessione, di nuovo, può diventare un’opzione moralmente legittima.

Rimane il mero nazionalismo: la secessione unilaterale sarebbe giustificata perché ogni popolo deve avere il suo Stato. Questa teoria, però, non sembra giustificare i costi morali che richiede. Se è possibile riconoscere l’autonomia dei gruppi nazionali all’interno di Stati plurinazionali, come accade in molti governi del mondo, perché si dovrebbero giustificare secessioni unilaterali, con tutte le ricadute in termini di conflitti e discriminazioni che esse generalmente hanno comportato e possono comportare? Per non parlare delle difficoltà teoriche di capire che cosa sia un ‘popolo’ o un’etnia, o una cultura condivisa. E per non dire del sospetto di egoismo, l’egoismo di una parte economicamente avanzata della Spagna che vuole evitare di perdere ricchezze e privilegi.

Nessuna di queste argomentazioni è definitiva, naturalmente. Ma rimane molto difficile capire con esattezza quali ragioni morali ci possano essere per aspirazioni nazionaliste nel cuore dell’Europa. Rimane piuttosto il timore per scene di violenza cui non si credeva di poter assistere in quelle zone.

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