Perché i catalani sono indeboliti ma possono ancora dichiarare l’indipendenza

8 ottobre 2017
Editoriale Europe
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In questa settimana, il Parlamento della Catalogna, su pressione del suo governo e forte dei risultati del referendum di pochi giorni addietro, potrebbe dichiarare l’indipendenza dalla Spagna. Tuttavia, nemmeno le più accorte Cassandre riuscirebbero a predire la decisione del Parlamento catalano, che potrebbe essere nel senso (a) dell’indipendenza immediata, (b) dell’indipendenza condizionata a successivi quanto incerti passaggi politici, fra cui la ricerca di un’intesa con il governo di Madrid, o (c) della salomonica posticipazione di ogni decisione, opzione che – per le ragioni secessionistiche – sarebbe a nostro avviso molto pericolosa.

In ogni caso, ciò che colpisce di questa situazione – volendo tacere dell’indegno comportamento di alcuni membri della Guardia civil per contrastare con mezzi violenti l’esercizio del diritto di voto dei catalani – è il fatto che pochi avrebbero immaginato la rapidità e forse la “inesorabilità” degli eventi che si sono succeduti nelle scorse settimane.


La storia dell’indipendentismo nel diritto internazionale

Nello stesso tempo, però, questa tipologia di eventi non costituisce affatto una novità nel diritto internazionale e quindi negli assetti di vari Stati. I più ottimisti, infatti, pensavano che i fenomeni secessionistici fossero relegati al lontano periodo della decolonizzazione (fra gli anni ’60 e ’70) e, al più, a qualche rigurgito autonomistico facilitato per un verso dal brutale e repressivo comportamento del sovrano al potere (Sud Sudan), e per altro verso dall’intervento massiccio – anche di natura militare – della comunità internazionale, come avvenuto per il Kosovo, divenuto indipendente contro la volontà del governo serbo, e per Timor Est, divenuto indipendente con il consenso del governo indonesiano.

Al contrario, l’esame della storia recente e meno recente permette di sostenere che i movimenti secessionistici costituiscono un elemento fisiologico di numerosissime società nazionali, che il principio dell’integrità territoriale dello Stato, esplicitamente o implicitamente incardinato nelle costituzioni statali (oltre che previsto dal diritto internazionale), non è certamente in grado di contenere. Nemmeno ha senso individuare a priori quali siano le ragioni delle diverse pretese secessionistiche, che variano da caso a caso e che spesso coesistono nelle circostanze concrete, potendo essere di natura etnica, religiosa, culturale e anche economica, come dimostra sia il caso catalano, sia quello del Kurdistan iracheno, nei quali le considerazioni storiche e culturali si intrecciano con quelle di natura economica, rappresentate dall’intenzione di esercitare poteri esclusivi sulle risorse presenti nei rispettivi territori. Tutte queste varie pretese possono rimanere “sotto traccia” per decenni e persino secoli così come insorgere in maniera improvvisa e spesso non preventivabile.

Come distinguere tra i tanti “secessionismi”
Il discrimine fra i vari fenomeni secessionistici è invece dato da due elementi: il comportamento assunto dal governo centrale di fronte alle pretese secessionistiche e il coinvolgimento della popolazione interessata. Con riferimento al primo elemento, che costituisce quello di maggiore importanza per il successo della causa secessionistica, il governo centrale può dare il suo consenso al distacco del territorio, generalmente subordinandolo a un previo referendum consultivo della popolazione locale, come avvenuto, con risultati opposti, per Timor Est e per il referendum scozzese concordato con il governo di Londra.

Laddove non si trovi una soluzione concordata fra movimento secessionista e governo centrale, si crea una situazione di “corto circuito” in base alla quale il diritto interno dello Stato vieta la secessione e anzi autorizza il potere centrale a contrastarla, e il diritto internazionale che, pur non attribuendo un diritto di secessione (che viene concesso nei limitati casi di decolonizzazione, di territori stranieri occupati con la forza e di politiche razziali perseguite dal governo al potere), non autorizza ma nemmeno vieta la dichiarazione di indipendenza da parte di governi e popolazioni locali.

L’altro elemento, riguardante il coinvolgimento della popolazione locale nei processi secessionistici, da un lato, rappresenta un argine all’eventuale decisione discrezionale del governo centrale di concedere la secessione, come dimostrato di recente dalla maggioranza degli scozzesi che ha escluso di volere accedere all’indipendenza. Dall’altro lato, la consultazione popolare, se libera da condizionamenti esterni (come invece avvenuto per la consultazione della popolazione della Crimea nel 2014, che ha dato uno scontato esito positivo circa la sua incorporazione da parte della Federazione russa) e capace di accertare la volontà effettiva della maggioranza della popolazione locale (la consultazione, in questi casi, non può estendersi all’intera popolazione nazionale perché ciò implicherebbe sempre un esito negativo in termini di secessione), può costituire un valido argomento, sebbene non decisivo, ai fini della secessione.

Appare evidente che, nel caso della possibile dichiarazione di indipendenza della Catalogna, difetta il consenso del governo centrale e l’esito positivo del referendum indipendentista è reso meno impermeabile dall’affluenza limitata degli aventi diritto, intorno al 43%. Ciò indebolisce le ragioni del movimento secessionista, ma non ostacola, almeno non sotto il profilo del diritto internazionale, la possibilità di dichiarare l’indipendenza, che potrebbe essere fondata sulla volontà di una parte significativa della popolazione catalana e sulla successiva decisione del Parlamento catalano, che potrebbe in qualche misura “sanare” l’aspetto relativo alla ridotta affluenza alle urne referendarie.

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L'autore

Pietro Pustorino è professore ordinario di Diritto internazionale alla LUISS


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