Perché secessione dall’Euro e monete parallele sono irrealizzabili – di Franco Passacantando
11 ottobre 2017
Le forze politiche che in Italia propongono una uscita dall’euro non sembrano interessate a fornire dettagli sui programmi che hanno in mente. L’uscita dall’euro ha invece una dimensione tecnica, oltre che economica e politica, di cui i cittadini dovrebbe essere messi a conoscenza per permetter loro di decidere se sostenere chi volesse perseguire questa strada. Questo lavoro, attraverso un confronto con l’esperienza argentina, ha esaminato i principali di questi aspetti tecnici.
Il più complesso è come riorganizzare il sistema della circolazione monetaria in Italia. La creazione dell’euro è stata accompagnata e in parte preceduta dalla creazione di un sistema di regole e procedure uniformi per effettuare pagamenti e regolare le transazioni finanziarie in Europa. È stata una realizzazione che ha permesso di abbattere i costi di transazione per famiglie e imprese e ridurre i divari di competitività rispetto alle altre grandi aree valutarie. Ha però comportato lo smantellamento dei sistemi nazionali e la loro progressiva sostituzione con infrastrutture centralizzate a livello europeo. Nell’area dell’euro, la principale realizzazione è stata la creazione del sistema TARGET2, che costituisce l’arteria portante della circolazione monetaria. Mentre in Argentina il sistema analogo trattava sia pesos che dollari, in Europa TARGET2 non è utilizzabile per valute diverse dall’euro. Per l’Italia, non poterlo utilizzare significherebbe bloccare un flusso di pagamenti che nel 2016 è stato di 72 miliardi di euro in media al giorno. Sarebbe come una trombosi della circolazione monetaria, senza la possibilità di alcun by pass verso circuiti alternativi, almeno per i flussi più importanti di pagamento. Per il paese diventerebbe estremamente complicato e costoso effettuare transazioni con il resto dell’Europa e accedere ai mercati finanziari e valutari internazionali, che sono fondamentali per un’economia con un alto debito come quella italiana e fortemente legata al settore delle esportazioni. Con il rischio che, una volta perso l’accesso diretto a questi mercati, si venga relegati al ruolo di paese di secondo livello per un periodo di tempo che andrebbe ben oltre quello della transizione a una nuova moneta.
Le poche analisi sugli aspetti operativi dell’Italexit ignorano quasi interamente questo problema e si concentrano sul problema della creazione di una nuova moneta circolante, trattato peraltro in modo molto semplicistico. La sostituzione di 3 miliardi e 600 milioni di banconote in euro oggi in circolazione porrebbe questioni logistiche molto complesse e le soluzioni ponte che i fautori dell’Italexit propongono, come la stampigliatura degli euro e la moneta elettronica, non sono facilmente percorribili e in ogni caso richiederebbero tempi lunghi. Il valore complessivo del circolante in euro è di 181 miliardi, corrispondente a quasi l’11 per cento del PIL. Non riuscire a sostituirlo in tempi brevi con una nuova moneta inciderebbe pesantemente sui consumi. A soffrirne sarebbero soprattutto gli strati più deboli della società, i piccoli esercizi commerciali, le micro-imprese, molti operatori individuali, le regioni del Sud più di quelle del Nord.
La creazione di una nuova moneta e soprattutto di un nuovo sistema dei pagamenti richiederebbero dunque lunghi preparativi prima di essere attuate. Sicuramente non sarebbe questione di poche settimane o anche di pochi mesi. E l’idea che tutto questo possa essere fatto in gran segreto è assurda. (…)
Le difficoltà della transizione alla nuova moneta e il disordine finanziario che l’accompagnerebbero renderebbero inevitabile il default sul debito. In Italia, la ristrutturazione del debito dovrebbe essere ben più radicale di quella, già estrema, dell’Argentina. In quel paese infatti il debito pubblico era meno della metà di quello italiano, in percentuale del PIL, e per quasi il 60 per cento detenuto da non residenti. Inoltre il governo argentino riuscì a escludere dalla ristrutturazione una buon parte del debito detenuto dai residenti. In Italia, invece, la quota detenuta da non residenti è intorno al 30 per cento e in continua diminuzione perché gli investitori esteri stanno avvantaggiandosi del quantitative easing attuato dalla Banca Centrale Europea per alleggerire i loro portafogli di titoli dei paesi “periferici”. Una ristrutturazione del debito avrebbe un effetto dirompente sulla ricchezza delle famiglie e metterebbe in crisi un sistema finanziario già duramente provato dalla duplice crisi degli ultimi anni, con seri contraccolpi sull’attività produttiva e sulla stessa capacità di esportazione del paese.
L’esperienza argentina mostra anche i pericoli che deriverebbero dall’introduzione di monete parallele. All’inizio l’emissione di “quasi monete” ebbe un effetto localizzato e di segno incerto nelle province che le emisero. Quando poi il governo centrale decise di proporre una terza moneta a livello nazionale, fu come dar fuoco a una miccia che nel giro di pochi giorni fece precipitare la crisi. Anche in Italia l’iniziativa di emissione di una moneta parallela o “fiscale” potrebbe essere interpretata come il primo passo verso un’uscita dall’euro, soprattutto se a proporla fossero forze politiche chiaramente ostili all’euro. Sarebbe inoltre giudicata criticamente dalle società di rating, sempre molto attente ai livelli del debito e alla qualità degli strumenti per finanziarlo. In linea di principio questi pericoli potrebbero essere attenuati se la proposta fosse portata avanti a livello europeo da un’ipotetica alleanza in favore di un’unione “bi-monetaria”. L’esigenza di adattare regole uniformi in campo monetario e fiscale alle realtà dei singoli paesi è legittima ma lo strumento per soddisfarla non può essere un sistema di doppia circolazione monetaria. La storia del bimetallismo insegna che questi sistemi sono per loro natura instabili e l’esperienza recente dell’Argentina prova che l’emissione di monete parallele complicherebbe enormemente la conduzione della politica monetaria e il coordinamento delle politiche di bilancio.
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