Ecco teorie e sorprese dietro il Nobel dell’Economia a Thaler

16 ottobre 2017
Editoriale Open Society off
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Il 9 ottobre scorso la Royal Swedish Academy of Sciences ha assegnato il Premio Nobel per l’Economia 2017 a Richard H. Thaler, classe 1945, Professore di Scienze del Comportamento ed Economia presso la Booth School of Business della University of Chicago.

Per chi, come me, si occupa di temi di ricerca associati all’economia sperimentale e del comportamento questa notizia non è giunta inaspettata. Tutt’altro: il nome di Thaler era spesso nella rosa dei candidati più probabili, insieme a quelli di Charles Plott e Colin Camerer, entrambi autorevoli ricercatori su temi analoghi del California Institute of Technology di Pasadena. Così come non si può definire quella di Thaler come di una scelta di rottura rispetto al passato. Al contrario, esiste un filo rosso che collega il premio attribuito a Thaler a quelli assegnati nel passato recente a Herbert Simon (1978: “razionalità limitata e procedurale”), Vernon Smith (2002: “approccio sperimentale allo studio dei mercati”), Thomas Schelling (2005: “analisi economica di norme sociali e convenzioni”), Alvin Roth (2012: “esperimenti su modelli di contrattazione e meccanismi economici”) e – soprattutto – Daniel Kahneman (2002), lo psicologo di Princeton a cui, proprio insieme a Thaler, si riconosce l’impulso a definire l’economia del comportamento come il luogo di incontro e confronto tra la microeconomia tradizionale (con particolare riferimento alla teoria delle decisioni e dei giochi) e la psicologia cognitiva.

Quello che sorprende, casomai, è che il premio sia stato assegnato in solitario (circostanza non frequente negli ultimi anni) a un personaggio – a prescindere dall’indubbio prestigio accademico – per molti aspetti anomalo. Infatti Thaler, oltre essere un fine ed autorevole accademico, è un personaggio pubblico, autore di libri di successo, con una presenza mediatica importante, di gran lunga superiore a quella di molti autorevoli colleghi. La sua immagine pubblica è controversa, polemica, così lontana dall’immagine dell’economista come di un cultore di una “scienza triste” (“dismal science”, nell’efficace descrizione di Thomas Carlyle), che osserva il comportamento economico come un mero confronto tra costi e benefici, totalmente astratto dal contesto psicologico e sociale che caratterizza le decisioni prese nella vita di tutti i giorni. E, proprio per questo motivo, spesso incapace di proporre soluzioni efficaci nei momenti drammatici in cui le dinamiche economiche sfuggono al controllo di politici ed economisti, con gravi conseguenze sul benessere e la prosperità di milioni di persone: “An economist is an expert who will know tomorrow why the things he predicted yesterday didn’t happen today” (Lawrence J. Peters).

I tre motivi specifici dietro questo Nobel

Leggendo le motivazioni dell’assegnazione del premio da parte della Royal Swedish Academy of Sciences, i principali contributi attribuibili a Thaler nel progresso del pensiero economico riguardano l’analisi di tre specifici processi cognitivi:

  1. Mental Accounting: ovvero, la difficoltà da parte degli individui nell’elaborare decisioni di investimento nel loro complesso, riducendole –nel tentativo di semplificarle – in sequenze di decisioni associate a domini cognitivi indipendenti e disgiunti tra loro, sia nel tempo che nello spazio. Un classico esempio di questo comportamento, così comune a molti di noi, è efficacemente descritto dal divertente video in cui Dustin Hoffman e Gene Hackman ricordano la loro vita di (squattrinati) aspiranti attori.
  2. Problemi di autocontrollo (o di “inconsistenza temporale”): ovvero la difficoltà che gli individui hanno nel mettere in atto in modo razionale e coerente comportamenti che implicano diverse azioni in diversi momenti nel tempo.
  3. Preferenze sociali: ovvero l’esistenza di motivazioni all’azione che non riguardano solo il benessere del decisore, ma anche quello di persone a lui/lei relazionate. Ciò permette di dare una veste formale a sentimenti quali l’altruismo, l’invidia, il senso di colpa, il senso di giustizia, come forme primitive dell’agire umano.

Ultimamente, il nome di Thaler è spesso associato alla pubblicazione di un libro di grande successo: “Nudge: Improving Decisions about Health, Wealth, and Happiness” (scritto con Cass R. Sunstein, professore presso la Harvard Law School e pubblicato dalla  Yale University Press nel 2008). Utilizzando una scherzosa definizione dello stesso Thaler in un’intervista alla BBC, “Nudging is making the spinaches taste a little better”. Ovvero prendere coscienza delle distorsioni cognitive che caratterizzano le nostre decisioni – finanziarie e non – può aiutarci ad avere comportamenti più coerenti con i nostri bisogni e inclinazioni. Detto altrimenti, “nudging” consiste nel modificare il rapporto di comunicazione tra le istituzioni e i cittadini mettendo in rilievo le caratteristiche dei processi decisionali di questi ultimi che generano effetti indesiderabili, sia dal punto individuale che collettivo.

I limiti del nudge spiegati con la besciamella

Quello del nudging è un approccio alla politica economica che è incrementale, non sistemico. Ed è forse questo il punto che ha suscitato più perplessità all’interno della professione, soprattutto in relazione all’assegnazione del premio: “If you give a Nobel for Nudging I think my mom did a much better job already 60 years ago, I suspect that your mothers did so too. The relationship of THIS kind of behavioral economics to economics and science is as softball to baseball; badminton to tennis; Trump to a human president […].” Questo commento, esplicitamente polemico, estratto dal dibattito sviluppatosi sulla mia personale rete sociale di facebook a seguito dell’assegnazione del Nobel, testimonia come – ancora oggi – l’approccio comportamentale sia visto con diffidenza e sospetto da un buon numero di colleghi che seguono un metodo più tradizionale di analisi microeconomica dei comportamenti economici (e, di conseguenza, di analisi delle politiche volte a modificare in senso più efficiente tali comportamenti, sia dal punto individuale che collettivo). Ciononostante, quello comportamentale è un approccio che già conta di innumerevoli applicazioni di successo, come dimostrano molti progetti pilota svolti in tutto il mondo, soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito.

Ciò che resta da determinare è la sostenibilità delle politiche di nudging, ovvero la loro efficacia di lungo periodo. Nella misura in cui tali politiche sono basate sulla manipolazione di distorsioni cognitive che agiscono a livello individuale, non è detto che, col tempo, gli individui non mettano in essere comportamenti che, alla fine, rendano il nudge inefficace. Sempre restando al tema degli spinaci, anche mia madre – esperta di nudging ante litteram come la madre del mio autorevole collega – era solita condire i cavolfiori con abbondanti dosi di besciamella, prima di mettere tutto in forno. Questo piatto – che mi piaceva moltissimo ma che comunque oggi non mangio più – rimane radicato nella mia memoria. Ma quello che resta nella mia cucina non sono i cavolfiori… ma la besciamella, con cui spesso condisco piatti fatti al forno non proprio dietetici, diciamo così.

Questo è il punto critico che, a mio parere, riguarda il nudging: fu vera gloria?
Ai posteri l’ardua sentenza.

L'autore

Giovanni Ponti è Professore Associato di Economia Politica e docente di Economia del Comportamento e Teoria dei Consumi presso la LUISS. Inoltre, dirige il Laboraory of Theoretical and Experimental Economics (LaTEx) dell’Universidad de Alicante e collabora con il gruppo di Ricerca in Economia del Comportamento della University of Chicago coordinato dal prof. John List


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