Referendum sull’autonomia? Perché finora il regionalismo italiano ha deluso

16 ottobre 2017
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Il testo che segue è tratto dal libro Per autonomie responsabili. Proposte per l’Italia e l’Europa, curato da Gian Candido De Martin e Francesco Merloni per la LUISS University Press.

I limiti e i difetti attuali del regionalismo italiano risalgono in parte alle sue origini, in parte agli orientamenti politici e legislativi oggi prevalenti.

I limiti di origine sono noti. In primo luogo il ritardo con cui si è iniziato ad attuare il disegno costituzionale dell’ordinamento regionale ordinario, favorendo così la ricostruzione e il consolidamento del tradizionale assetto centralistico dello Stato. E poi ancora il dualismo fra Regioni speciali e Regioni ordinarie, queste ultime caratterizzate per lo più da un incerto senso di autoidentificazione delle comunità regionali, con la conseguente relativa artificiosità delle dimensioni territoriali. Regioni ordinarie disegnate dal legislatore statale con caratteristiche diverse dalle speciali, specie sul terreno finanziario. Inoltre, le diffuse tendenze al particolarismo localistico, che conduce spesso gli enti locali di base, i Comuni, a temere più il “neo-centralismo” regionale che il tradizionale controllo dello Stato centrale. Infine l’assetto fortemente centralizzato del sistema delle forze politiche e delle stesse rappresentanze di interessi.

Gli slogan dei regionalisti negli anni Settanta del secolo scorso invocavano “le Regioni per la riforma dello Stato”; “le Regioni per la programmazione”; “le Regioni per la partecipazione”. Ora, nuovi modelli di amministrazione si sono visti forse di più, talvolta, a livello statale che non a livello regionale. L’idea di una programmazione economica decentrata è andata svanendo insieme alla stessa idea della programmazione economica come era pensata in quegli anni. Gli stessi istituti di partecipazione hanno spesso mostrato maggiore vitalità a livello nazionale (si pensi al referendum) che a livello ragionale.

La riforma del Titolo V del 2001 da subito abbandonata a se stessa

La riforma del Titolo V decisa nel 2001 ha costituito più il frutto di un tentativo di inseguire sul terreno del consenso una nuova forza politica (la Lega nord) portatrice (allora) di istanze autonomistiche o addirittura secessionistiche, che non il frutto di un convinto e coerente disegno di politica istituzionale. E proprio per questo la riforma è rimasta fin dall’inizio, e fino ad oggi, largamente inattuata, e abbandonata a se stessa.

La legislazione statale non si è per nulla sviluppata secondo il modello della legge quadro che stabilisce princìpi. Il disegno di un vero “federalismo fiscale” è stato di fatto abbandonato; il ruolo di coordinamento finanziario spettante allo Stato è stato sempre più esercitato nel senso non solo di restringere l’autonomia delle Regioni sul lato delle entrate, ma anche nel senso di un controllo e di un condizionamento minuzioso della spesa regionale, non solo in termini complessivi ma anche in relazione a singole destinazioni di spesa.

Il riparto delle competenze legislative disegnato in Costituzione con la riforma del 2001 è viziato, come si sa, da alcuni evidenti errori, nei due sensi, sia cioè della attribuzione alla competenza concorrente di ambiti di materia chiaramente nazionali come la distribuzione nazionale dell’energia, sia della attribuzione alla competenza statale esclusiva di ambiti in cui inevitabilmente interferiscono competenze regionali come la tutela dell’ambiente. Invece di correggere tali errori, si è manifestata una accentuata conflittualità in sede di giudizio costituzionale (anche per il venir meno di strumenti preesistenti di composizione dei conflitti come il rinvio governativo delle leggi al consiglio regionale); e si è fatto un utilizzo smodato da parte del legislatore statale delle sue competenze di tipo “trasversale”, tradottosi spesso in una innaturale restrizione di ambiti tipici dell’autonomia regionale (si pensi all’organizzazione amministrativa regionale, sempre più strettamente condizionata da norme statali in nome della competenza sull’“ordinamento civile”). Molto è rimasto affidato all’uso di clausole di flessibilità “giurisprudenziali” come l’“attrazione in sussidiarietà” o la leale cooperazione.

A tutto ciò si è aggiunta una debolezza complessiva delle classi politiche e degli apparati amministrativi delle Regioni nel dare vita a decisioni legislative e amministrative innovative e convincenti, così che anche di fronte all’opinione pubblica spesso le Regioni sono apparse prevalentemente sedi di sprechi o di malcostume nell’uso delle risorse pubbliche.

Idee per invertire la rotta: Legge quadro, regolamenti parlamentari…

Per il futuro, al fine di puntare alla rivitalizzazione di una sana pratica autonomistica, si possono tracciare alcune indicazioni di metodo e di merito.

Sul piano del metodo – forse in prospettiva il più importante – si dovrebbe anzitutto promuovere a livello statale quell’adeguamento dei “principi” e dei “metodi” della legislazione alle “esigenze dell’autonomia e del decentramento”, che l’articolo 5 della Costituzione impone, rivitalizzando il modello costituzionale – da tempo sostanzialmente abbandonato – della “legge quadro”.

Sul terreno delle procedure legislative, è auspicabile che si sperimenti finalmente la integrazione della commissione bicamerale per le questioni regionali con rap- presentanti delle Regioni e dei poteri locali, prevista dalla riforma del 2001 e mai attuata: essa potrebbe anche contribuire ad una migliore organizzazione, attraverso opportune integrazioni e modifiche dei regolamenti parlamentari, del lavoro delle due Camere sui temi riguardanti le autonomie.

Nel merito, il tema di fondo è sempre quello dell’equilibrio da realizzare fra esigenze di uniformità nazionale ed europea, ed esigenze di rispetto e di sviluppo delle legittime differenze.

In ordine al riparto delle competenze, a parte le singole correzioni utilmente apportabili allo schema del 2001, sarebbe, da un lato, da riprendere il tema delle autonomie speciali, da ricondurre alle ragioni permanenti della specialità, per altro verso superando differenze di trattamento rispetto alle autonomie ordinarie, specie sul piano finanziario, che non si giustificano; dall’altro lato, sarebbe da sviluppare il sistema delle autonomie differenziate previsto dall’art. 116, terzo comma, della Costituzione. Andrebbero poi affrontati i temi del miglioramento degli strumenti di collaborazione, sia a livello nazionale sia a livello territoriale, in attuazione dei princìpi di sussidiarietà e di leale cooperazione, specie per quanto attiene alla programmazione e realizzazione delle grandi infrastrutture.

A sua volta, il sistema degli enti locali andrebbe ripensato alla luce degli stessi princìpi. Sarebbe tempo di superare il dualismo fra Regioni ordinarie e Regioni speciali anche per quanto riguarda l’assetto dei poteri locali, attribuendo a tutte le Regioni, e non solo a quelle speciali come oggi accade, una competenza generale, sia pure di tipo concorrente, in tema di ordinamento degli enti locali. Andrebbe rivisto a fondo, dopo l’improvvida “anticipazione” di una riforma costituzionale che non c’è stata, realizzata con la legge n. 56 del 2014 (la c.d. legge Delrio), l’assetto degli enti di area vasta, ripristinando il ruolo costituzionale delle Province almeno nelle Regioni di maggiori dimensioni, ridefinendone compiti e organi, e consentendo lo sviluppo pieno di quella nuova forma di ente locale che è la Città metropolitana. A tal proposito, la revisione complessiva delle dimensioni territoriali degli enti di area vasta potrebbe anche innescare una riflessione e una eventuale revisione delle stesse identità territoriali delle Regioni. (…)

Cosa deve cambiare per soldi e bilanci gestiti dalle Regioni

C’è poi l’aspetto cruciale dell’ordinamento finanziario delle Regioni e degli enti locali. Un vero e solido sistema autonomistico non può prescindere dalla attribuzione agli enti territoriali di uno spazio di autonomia quanto alle entrate, in particolare tributarie, ovviamente nel quadro di coordinamento del sistema tributario complessivo che spetta allo Stato tracciare, e quanto alle spese. Autonomia non vuol dire certo possibilità per gli enti decentrati di imporre tributi senza limiti, né di accrescere la spesa senza limiti. Al contrario, l’ente locale deve sapere con precisione quali sono gli spazi di autonomia di cui dispone quanto al prelievo, deve prendere le decisioni quanto al prelievo entro quegli spazi e quanto alle spese con essi alimentate, nel rispetto dei compiti e di fini ad esso attribuiti, e rispondere agli elettori del prelievo imposto e dell’uso delle risorse prelevate.

Né sono in discussione i principi di equilibrio dei bilanci locali e di limiti all’indebitamento espressamente sanciti dall’art. 119 Cost. come modificato nel 2012 (semmai in proposito si può osservare come risulti non facilmente armonizzabile con i princìpi di autonomia la previsione secondo cui l’indebitamento di ciascun ente locale è subordinato alla condizione che – come dispone l’ultimo comma dell’art. 119 – sia rispettato l’equilibrio di bilancio “per il complesso degli enti di ciascuna Regione”). A questo quadro di “federalismo fiscale” è improntato il sistema costituzionale degli enti territoriali: ma oggi, dopo l’avvio realizzato con la legge n. 42 del 2009, si può dire che anch’esso sia stato abbandonato e quotidianamente contraddetto.

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