Google, Facebook, Amazon. La grande guerra delle piattaforme – di Nick Srnicek
19 ottobre 2017
Il testo che segue è tratto da Capitalismo digitale. Google, Facebook, Amazon e la nuova economia del web (LUISS University Press, 2017). © 2017 Nick Srnicek. Riprodotto per gentile concessione dell’autore.
Nick Srnicek sarà a Roma venerdì 20 ottobre, ore 18:00, per il dibattito “Quando il vecchio muore e il nuovo non può nascere. Ritorno al futuro: utopia vs. distopia nella crisi del neoliberalismo” (Interregno Festival, ESC, Via dei Volsci 159)
Se le piattaforme sono il modello aziendale emergente per l’economia digitale, come appaiono quando sono inserite nella storia assai più lunga del capitalismo? In particolare, fino a questo punto è stato ampiamente tralasciato uno dei vettori essenziali del capitalismo: la concorrenza intercapitalista. Il periodo iniziato negli anni Settanta durante il quale l’economia globale è stata gravata da eccesso di capacità e sovrapproduzione nel settore manifatturiero è noto come “la lunga recessione”. Con le aziende riluttanti o incapaci di distruggere il proprio capitale fisso o di investire in nuove linee, la competizione internazionale è andata avanti in maniera costante e, con essa, la crisi dell’eccesso di capacità nella produzione.
Non più in grado di generare crescita in questa situazione, negli anni Novanta gli Stati Uniti hanno cercato di stimolare l’economia attraverso un keynesismo del prezzo dei beni che si muoveva inducendo bassi tassi di interesse per generare prezzi delle attività più elevati e un effetto ricchezza che avrebbe innescato una più ampia crescita economica. Questo ha condotto al boom delle Dot-com negli anni Novanta e alla bolla immobiliare dei primi anni del Ventunesimo secolo.
Attualmente, il keynesismo del prezzo dei beni prosegue a ritmo elevato ed è uno dei principali fattori alle spalle dell’attuale successo delle start-up del settore tech. Eppure, dietro la luccicante nuova tecnologia e la facciata raffinata delle interfacce delle app, quali conseguenze a più ampio spettro potrebbero serbare queste nuove società per il capitalismo? Passeremo qui in rassegna le tendenze scatenate nell’ambiente più ampio della lunga recessione. Secondo alcuni, il capitalismo si autorinnova attraverso la creazione e l’adozione di nuovi complessi tecnologici: motori a vapore e ferrovie, acciaio e settore metalmeccanico, automobili e petrolchimici – e ora informazione e tecnologie della comunicazione. Stiamo forse assistendo all’adozione di una nuova infrastruttura che potrebbe riportare in vita la crescita moribonda del capitalismo? La concorrenza è destinata a sopravvivere nell’era digitale, oppure siamo diretti verso un nuovo capitalismo monopolistico?
Grazie agli effetti di rete, una tendenza verso la monopolizzazione è nel DNA delle piattaforme: più numerosi sono gli utenti che interagiscono su di essa, più valore l’intera piattaforma acquista per ognuno. Gli effetti di rete, per di più, tendono a significare che i benefici iniziali si solidificano come posizioni permanenti di leadership nel settore. Le piattaforme hanno, come se non bastasse, una capacità unica di collegare e consolidare differenti effetti di rete. Per esempio, Uber beneficia degli effetti di rete di sempre più autisti oltre che di quelli di un numero via via maggiore di utilizzatori. Le piattaforme leader tendono in maniera consapevole a perpetuarsi anche in altri modi. I vantaggi nella raccolta dati implicano che più una società ha accesso ad attività, più dati può estrarre e maggiore è il valore di quelli, di conseguenza avendo la possibilità di accedere ad ancora più attività. Allo stesso modo, l’acquisizione di una grande quantità di dati da diverse aree delle nostre vite rende più utile la predizione, e questo stimola la centralizzazione dei dati all’interno di una sola piattaforma. Diamo a Google accesso alla nostra email, ai nostri calendari, allo storico dei video che abbiamo cercato, alle nostre cronologie di ricerca, alle nostre localizzazioni – e con ogni fattore che forniamo a Google, come risultato otteniamo servizi predittivi migliori. Analogamente, le piattaforme puntano a favorire prodotti complementari: un software utile costruito per Android porta più utenti a usare questo sistema operativo, il che spinge più sviluppatori a creare nuovi programmi per Android, e così via. Le piattaforme cercano anche di costruire ecosistemi di beni e servizi che tagliano fuori i competitor: app che girano solo su Android, servizi che necessitano di un login da Facebook. Tutte queste dinamiche trasformano le piattaforme in monopoli con un controllo centralizzato sui numeri di utenti (e dei dati che essi producono) sempre più enormi.
Ci si può rendere conto di quanto siano già importanti questi monopoli guardando al modo in cui consolidano i ricavi pubblicitari: nel 2016 Facebook, Google e Alibaba da soli hanno raccolto la metà della pubblicità digitale mondiale. Negli Stati Uniti, Facebook e Google ricevono il 76 per cento dei ricavi legati alla pubblicità digitale, e guadagnano l’85 per cento di ogni dollaro investito in nuove pubblicità.
Eppure è anche vero che il capitalismo sviluppa non solo mezzi per un maggior monopolio ma anche mezzi per una maggiore concorrenza. La comparsa della società per azioni come modello, l’ascesa delle grandi istituzioni finanziarie, e le risorse monetarie alle spalle degli stati sono tutti indicatori della capacità da parte del capitalismo di avviare nuovi tipi di industrie e di far crollare i monopoli già esistenti. Un altro aspetto altrettanto importante, le piattaforme digitali tendono a sorgere in settori industriali che sono soggetti a disturbo da parte di nuovi competitor. I monopoli, in quest’ottica, dovrebbero dunque essere solo temporanei. La sfida odierna, tuttavia, è che l’investimento di capitale non sia sufficiente a rovesciare i monopoli; l’accesso ai dati, gli effetti di rete e la cosiddetta path dependency implicano ancora più ostacoli sulla via che conduce al superamento di un monopolio come quello di Google. Questo non significa la fine della concorrenza o della lotta per accaparrarsi quote di mercato, ma piuttosto un cambiamento nel modo in cui la concorrenza si svolge. In particolare, si tratta di un allontanamento dalla concorrenza sui prezzi (per esempio laddove molti servizi sono gratuiti). Qui si arriva a un punto fondamentale. Diversamente dal settore produttivo, la concorrenzialità tra piattaforme non si giudica esclusivamente usando il criterio di una differenza massima tra costi e prezzi; la raccolta dati e la loro analisi contribuiscono altresì a giudicare e classificare la concorrenzialità. Questo vuol dire che, se queste piattaforme desiderano continuare a essere competitive, devono aumentare la propria attività di estrazione, analisi e controllo dei dati – e per farlo devono investire in capitale fisso. Se nel loro DNA c’è la tendenza alla monopolizzazione, al momento attuale si trovano ad affrontare un ambiente sempre più competitivo del quale fanno parte altre importanti piattaforme.
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