La Sicilia come “laboratorio politico” dell’Italia? È solo un mito. Ecco perché
4 novembre 2017
L’attesa per i risultati delle consultazioni regionali in Sicilia sembra assegnare, a quell’appuntamento elettorale, un significato talmente rilevante da giustificare un’attenzione quasi spasmodica non solo da parte di commentatori e analisti, ma da parte della stessa classe politica che compete per il controllo dell’Assemblea e della Presidenza. Un’attenzione che deriva dalla percezione che ancora una volta, come già accaduto nel corso della storia repubblicana, la Sicilia possa funzionare da laboratorio politico capace di anticipare, sul piano territoriale, le trasformazioni che potrebbero investire il più complesso sistema politico nazionale. In questo frangente a suffragare la comparazione contribuiscono almeno due fattori: il primo attiene a un dato meramente cronologico, vale a dire l’estrema vicinanza temporale tra la tornata di amministrative che interessano l’isola e la tornata di politiche che dovrebbero portare al rinnovo della legislatura nella prossima primavera; il secondo, la similitudine del meccanismo elettorale, caratterizzato, tanto nel caso della legge per l’elezione dell’Assemblea Regionale Siciliana quanto nel Rosatellum, da una forte tendenza al proporzionalismo. A fronte della suggestione che una semplice sovrapposizione dei due piani può evocare, vale la pena insistere su alcuni aspetti della comparazione che, se da un lato aiutano a comprenderne le origini, dall’altro mostrano i limiti oltre i quali essa non può essere spinta.
La variabile (sottovalutata) dell’autonomismo siciliano
In questa direzione, è proprio l’analisi storica a fornire gli strumenti più efficaci per la valutazione di un processo più complesso, su almeno tre livelli. Il primo riguarda le ragioni che inducono a vedere nella Sicilia una sorta di anticipatore delle tendenze nazionali sul piano della sperimentazione delle alleanze politiche. Un’analisi di lungo periodo mostra, in effetti, come proprio nell’isola siano stati precorsi i temi della sperimentazione di formule politiche nuove: basti pensare al cosiddetto “caso Milazzo” che, nel 1958, avrebbe determinato la collaborazione tra Pci e Msi, in chiave antidemocristiana; o ancora alla nascita del centro-sinistra che avrebbe anticipato sul piano regionale l’alleanza tra democristiani e socialisti realizzata, sul piano nazionale, dalla formazione del governo Moro-Nenni del dicembre 1963. Gli esempi potrebbero continuare, ricordando come già nel 1976 proprio in Sicilia si fosse realizzato per la prima volta lo storico incontro tra Democrazia cristiana e Partito comunista, anticipando la strategia del “compromesso storico” e, dunque, l’allargamento dell’area di governo alle forze del cosiddetto arco costituzionale. Se, dunque, l’ipotesi della comparazione trova origine storica nei processi appena richiamati, occorre tuttavia considerare la cornice all’interno della quale essa si è realizzata: una cornice segnata non solo dalla forte presenza e dal radicamento sociale ed elettorale dei “grandi partiti”, ma anche dal significato assunto dalla vittoria della soluzione autonomista rispetto a quella indipendentista: una vittoria che pone, sin dal 1947, su basi diverse il rapporto tra la dimensione nazionale e quella regionale.
Proporzionalismo e centro-destra isolani
Il secondo livello attraverso cui indagare la comparazione è dato dalla capacità della Sicilia di anticipare le trasformazioni del rapporto eletto-elettore che avrebbero segnato il passaggio, sul piano nazionale, dalla “prima” alla “seconda” repubblica. Anche qui un esame storico di più lungo periodo aiuta a comprendere meglio i confini di questo processo. È innegabile, infatti, che l’esperienza della cosiddetta “primavera palermitana”, recuperando il tema della questione morale, e combinandolo con l’intensificarsi della lotta alla mafia, abbia anticipato negli anni Ottanta il terremoto politico prodotto da Tangentopoli e dall’avvio delle inchieste condotte dal pool di giudici di Mani pulite, segnando non solo il tramonto di una classe politica, ma al contempo degli strumenti di organizzazione della democrazia rappresentativa. Una conferma in questa direzione si ricava da almeno tre indicatori: in primo luogo dal successo elettorale, a partire dal 1996, di Forza Italia, e più in generale dei governi di centro-destra; in secondo luogo, dalla riforma introdotta con la legge costituzionale del 2001, che ha sostituito l’art. 9 dello Statuto della Regione, rendendo diretta l’elezione del Presidente; in terzo luogo dalla più recente modifica dell’art.3 che ha ridotto da 90 a 70 il numero dei deputati dell’Assemblea regionale. Se ci si limita a prendere in considerazione questi dati appare, ancora una volta, evidente come il parallelismo tra il piano regionale e quello nazionale trovi un suo fondamento. Tuttavia, alcuni elementi rendono l’equazione meno scontata, o accettabile entro certi limiti. Per esigenze di sintesi sarà sufficiente ricordarne alcuni. L’accentuazione del dato personalistico, combinato al tramonto della tradizionale struttura partitica e ad una crescente disaffezione nei confronti delle istituzioni, si è tradotta in Sicilia nella scelta di rafforzare i meccanismi della democrazia diretta, e dunque della fiducia nel rapporto eletto-elettore, che ha finito per “individualizzare” fortemente il meccanismo della rappresentanza senza, tuttavia, rinunciare ad un impianto elettorale di tipo proporzionale. In controtendenza rispetto a quello che sarebbe avvenuto sul piano nazionale. Come in contro tendenza rispetto al piano nazionale si definisce il rapporto di forza tra le formazioni politiche: se si prende in considerazione il decennio tra il 2001 e il 2012 non si fa fatica a rilevare una netta prevalenza nel sistema politico siciliano del blocco di centro-destra, scalfita solo dalla elezione di Rosario Crocetta. Anche in questo caso in controtendenza con la maggiore instabilità del rapporto maggioranza-opposizione nel sistema politico nazionale.
Il fattore “astensione”
L’ultimo spunto di rapida riflessione per una comparazione meno semplificata tra il piano politico regionale e quello nazionale si ricava da quello che viene considerato dagli osservatori uno dei dati più interessanti: vale a dire la percentuale del numero di astenuti e il peso che essa avrà nel favorire una o l’altra delle forze politiche in competizione. Anche in questo caso un’analisi più superficiale evidenzia come la scelta di non partecipare al voto sia non solo una tendenza consolidata, ma rifletta quella sfiducia nelle istituzioni che accomuna tutte le forme e i livelli di espressione della sovranità, rendendo ancora più incerta la ricerca di una governabilità del sistema. Sebbene si tratti di una considerazione non contestabile, qualche dato aiuta a meglio problematizzarne la lettura e l’interpretazione. Se lo si analizza proprio dal punto di vista dei livelli di partecipazione, il caso della Sicilia mostra un andamento interessante. Durante tutta la stagione repubblicana, dal 1947 fino agli anni Novanta, infatti, le tornate regionali evidenziano un tasso di partecipazione particolarmente elevato, anche se gradualmente decrescente: se negli anni Cinquanta la percentuale dei votanti raggiunge picchi dell’86% e negli anni Sessanta subisce una leggera flessione, ne decennio degli anni Settanta torna ad assestarsi intorno ad una media dell’83%, per mantenersi stabile nei due decenni successivi intorno ad una media del 74%. E’ proprio a partire dal 2001, in occasione delle prime elezioni dirette del governatore, che la percentuale di partecipazione subisce una evidente inversione di tendenza: se nel 2001 si reca alle urne il 69% degli aventi diritto, nel 2006 la percentuale tocca il 59%, per subire un incremento di 7 punti percentuali nel 2008 e raggiungere il minimo storico proprio nel 2012, quando si sarebbe recato a votare il 47% degli aventi diritto. La considerazione del dato numerico permette di suggerire alcuni elementi di riflessione. Il primo concerne l’efficacia delle forme di personalizzazione politica e di sperimentazione di modelli di democrazia diretta, combinati alla conservazione di un sistema proporzionale, come risposte ad una crisi di legittimazione delle istituzioni politiche. Il secondo concerne la capacità di consolidamento e di penetrazione di proposte politiche partitiche in un contesto segnato dalla stessa crisi di legittimazione. L’ultimo concerne l’effettiva esistenza di spazi di costruzione del consenso a vantaggio di formazioni politiche nuove che si propongono come risposta alla crisi di legittimazione.
Un quadro, dunque, più complesso rispetto a facili semplificazioni. Una elezione regionale che certamente avrà una rilevanza rispetto al quadro politico nazionale ma che non necessariamente anticiperà la definizione di nuovi equilibri e nuove alleanze. Se non altro per il fatto che, come la storia insegna, amministrative e politiche rispondono sempre a logiche diverse, mai fino in fondo assimilabili.
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