Populismo, big data e disuguaglianza. I difficili equilibri della globalizzazione

16 novembre 2017
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Si avverte oggi una crescente preoccupazione riguardo alle concrete implicazioni di un mondo sempre più interdipendente, atteso che gli squilibri economici e le disuguaglianze sociali esasperano una rabbia popolare, ormai tangibile. In molti paesi, ciò è alla base del frazionamento del sistema politico che complica la formazione di coalizioni stabili di partiti. La frustrazione che gli elettori provano per la politica, alla cui base vi é un mix di sentimenti anti-establishment e anti-immigrati, è probabilmente il miglior indicatore del cambiamento in atto nel modo in cui la globalizzazione è pensata e percepita da una parte significativa della popolazione mondiale.

Secondo numerosi osservatori, le promesse di un progresso condiviso e di una sempre maggiore solidarietà umana, che sembravano emanare dalla caduta del muro di Berlino, sono state per lo più disattese. La globalizzazione ha nei fatti prodotto più svantaggi che vantaggi, non solo per le fasce a basso reddito, ma anche per la classe media. E il futuro non sembra avere in serbo niente di meglio.

Come mostrato dalla crisi catalana, il populismo non è solo una conseguenza inquietante dell’attuale disordine mondiale, ma può anche diventare un’arma nelle mani dei movimenti separatisti. Studi più recenti, incentrati sulle possibili vie d’uscita, sono giunti alla conclusione che nel prevedibile orizzonte politico non è riscontrabile alcun mutamento foriero di benefici duraturi. Ma c’è di più: gli effetti delle divisioni economiche rischiano di sommarsi alle tensioni di un contesto geo-politico gravido di pericoli, rendendo più difficile mettere attorno a un tavolo i maggiori leader mondiali. Mai come oggi si coglie il bisogno di un decisivo passo in avanti che promuova il dialogo, al fine di tornare a più accettabili livelli di sicurezza mondiale.

Allo stato attuale è ormai chiaro che l’unica soluzione ragionevole per disinnescare la violenza terroristica e le guerre per procura è di affrontare la sfida di rivedere gli equilibri del potere mondiale. A tal fine, alcuni osservatori sostengono la necessità di  considerare le realtà sul terreno. Il che suggerisce un certo numero di iniziative. La prima, e più importante, è di non respingere le ambizioni di chi come, tra gli altri, Cina, Russia, Giappone, Turchia ed Egitto vuole avere maggiore voce in capitolo nel processo di consultazione internazionale.

Una divisione del mondo in sfere di influenza, con l’obbligo reciproco per le maggiori potenze di conformare la rispettiva condotta a prefissate regole politiche e morali, potrebbe essere, almeno in via provvisoria, una decisione opportuna. Al contrario, cercare di isolare Russia e Iran non porterebbe da nessuna parte. Di certo, un miglioramento delle condizioni di sicurezza internazionali consentirebbe di affrontare meglio i lati negativi della globalizzazione.

Un’iniziativa a cui dare la priorità, in mancanza di istituzioni internazionali dotate della necessaria autorità, è rafforzare le politiche nazionali della globalizzazione. Uno dei primi obiettivi dovrebbe essere di arginare la convergenza tra le forze della globalizzazione e dell’information technology. Un obiettivo del genere potrebbe essere conseguito imponendo controlli più severi sulle operazioni di mercato relative alla  fusione e acquisizione di imprese, e in ultima analisi ai più potenti gruppi di investimento azionario e alle istituzioni bancarie, che forniscono le necessarie risorse finanziarie.

È opinione ampiamente condivisa che l’improvviso, forte sviluppo delle società hi-tech, i cui tentacoli, ritengono gli osservatori, si stanno insinuando sia nella vita pubblica che nella società civile, costituisca un fattore di indebolimento delle democrazie. Franklin Foer,  giornalista americano, lamenta nel suo ultimo libro (World Without Mind. The Existential Threat of Big Tech, Penguin 2017) la penetrante influenza nella società da parte delle maggiori imprese IT, che egli accusa di favorire un certo tipo di informazione, la quale arriverebbe a suggerire ciò che le persone dovrebbero pensare.

La speranza è che, contrastando in modo più efficace una globalizzazione praticamente guidata dai “poteri forti”, sarebbe più semplice porre un argine all’ondata populista – che, si badi bene, deve ancora raggiungere il suo picco – e il suo “pericolo gemello”, il separatismo. A proposito di quest’ultimo, va riconosciuto che la Gran Bretagna ha trovato un modo migliore per far recedere i moderati scozzesi da posizioni pro-secessione. Effettivamente, in alcuni paesi, tra cui l’Italia, potrebbe aver senso in linea di principio conferire alle regioni maggior voce in capitolo per gestire in modo più efficace, e di concerto con il governo centrale, le risorse nazionali.

Tuttavia, delegare porzioni consistenti di autorità alle regioni non è esente da rischi, dal momento che le questioni spinose che sorgono in quel caso presuppongono maggiori conoscenze e competenze, che non sempre sono possedute, per garantire una buona amministrazione. A tale riguardo, è utile menzionare l’Associazione Eunomia, con sede a Firenze, che ha lo scopo di migliorare le capacità professionali dei dirigenti pubblici. A questo scopo, organizza corsi di studio e master ben finalizzati agli obbiettivi di istituto. Che é un modo lodevole di gettare le basi per una migliore gestione del denaro pubblico: un prerequisito essenziale per dare in futuro una maggiore autonomia alle regioni.

L'autore

Antonio Badini insegna nel Dipartimento di Scienze Politiche della LUISS. È Direttore Generale dell’International Development and Law Organization ed è stato Ambasciatore d’Italia in Algeria, Egitto e Norvegia


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