Dietro le passerelle, un’industria da record. Numeri e atout della moda made in Italy
20 novembre 2017
LUISS Open ha incontrato Carlo Capasa, presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana, associazione di settore nata nel 1958 e che oggi rappresenta la maggior parte dei marchi di moda di alta gamma nel nostro Paese. Ecco cosa ci ha detto in occasione della Sesta edizione di “LUISS meets Fashion” organizzato nell’ambito del corso didattico di Fashion Management.
Quanto pesa il settore della moda in Italia?
È un settore che ha un’importanza macroscopica per il nostro Paese, meglio non farsi ingannare dalla componente estetica e dagli aspetti che a volte potrebbero apparire più futili. Basti dire che la moda è la seconda industria italiana dopo quella meccanica (grazie all’automotive). L’Italia da sola è responsabile del 41% della produzione di moda, accessori e abbigliamento di tutta l’Europa, seconda è la Germania con l’11%, solo poi arrivano Spagna (10%) e Francia (8%). Il nostro comparto ha un giro d’affari di 84 miliardi di euro, ed esporta l’80% di ciò che produce, contribuendo per 27 miliardi di euro all’attivo della bilancia delle esportazioni italiane. Poi l’occupazione: le donne costituiscono il 60% di chi lavora in questo mondo, e tantissimi sono i giovani. Senza contare l’indotto, che per la sola Settimana della Moda a Milano genera – tra alberghi, trasporti e ristoranti – 120 milioni di euro ogni anno.
Quali i punti di forza della moda italiana?
Siamo diventati i più bravi al mondo a produrre il lusso, o ciò che più precisamente chiamerei l’alta qualità. Perché abbiamo una filiera completa, sviluppata in tanti anni, oserei dire secoli. Partiamo dagli animali, produciamo il filo o la pelle, disegniamo i prodotti e poi cuciamo giacche o borse. Gli unici nel mondo a essere dotati di questa filiera completa siamo noi e i cinesi. Questi ultimi però insistono su prodotti di più basso livello. Il prezzo medio del venduto cinese è bassissimo rispetto a quello italiano. Noi siamo gli unici a produrre “lusso in serie”.
La piccola taglia delle imprese non è un handicap in questo settore?
Non sottovalutiamo i tipici e ormai famosi distretti italiani. Nel nostro settore hanno consentito di unire l’artigianato all’industria. È come se tante imprese assieme formassero una grande azienda e diventassero competitive quasi come una grande azienda. Questo è vero sia in termini di forza produttiva sia di flessibilità. Quest’ultima caratteristica consente di fare tesoro della massima creatività. Solo in Italia si può richiedere una gabardine di lana, mano carta o mano pesca, e decine di altre opzioni, e ottenere il tutto in tempi incredibilmente rapidi. Quella della moda è dunque un po’ un’isola felice dal punto di vista della governance aziendale, soprattutto perché ci siamo specializzati nell’alta qualità. Specializzandoci siamo andati a occupare una nicchia – non piccola per dimensioni – che rende obbligati alcuni accorgimenti. Perciò abbiamo fatto di un difetto un pregio: del difetto di essere a volte troppo individualisti, e quindi frammentati, abbiamo estratto un pregio creando un sistema molto flessibile e che si è rafforzato grazie ai distretti.
Quali i limiti su cui il settore moda dovrebbe lavorare per diventare ancora più competitivo?
Continuiamo ad avere qualche difetto, tra cui sicuramente quello di eccedere nell’individualismo e quindi a volte nella frammentazione, non solo dal punto di vista produttivo. La frammentazione del settore infatti non consente a volte di svolgere una comunicazione corretta ed efficace di tutto ciò che facciamo. L’esempio opposto più calzante è quello dei francesi che sono dei grandissimi comunicatori dei loro prodotti, spesso fatti in Italia ma comunicati decisamente meglio di quanto non facciamo noi. Questo non vale soltanto per la moda, ma anche per il settore food per esempio. C’è inoltre uno scarso orgoglio di raccontarsi, anche da parte dei grandi media.
Guardando al futuro, inoltre, indicherei a noi stessi una strategia che poggi su tre pilastri. Primo, la digitalizzazione. Secondo, la formazione continua e l’attenzione ai nuovi brand, perché la moda è sempre in movimento e deve sempre cambiare se stessa. Terzo, la sostenibilità. Non è il caso dell’Italia, ma a livello globale la moda è il secondo settore – dopo quello degli idrocarburi – che impatta maggiormente e in maniera negativa sull’ambiente.
La moda, non solo quella italiana, ha un rapporto privilegiato con Milano. Città in cui anche la LUISS ha appena aperto un hub per gli artigiani del futuro, siano essi Millennials digitali o startuppers nel settore Life&Style. Quali gli atout di questa città?
Milano è innanzitutto una città efficiente. Poi c’è una questione di mentalità. Pare che di milanesi di terza generazione ne siano rimasti solo cinquemila, ma il punto è che una persona appena arriva nel capoluogo meneghino – e lo dico io che vengo dalla Puglia – improvvisamente acquisisce una mentalità che è, un po’ banalmente, quella del “fare”. Mentalità che si associa a un certo puntiglio nell’organizzazione. Infine Milano è passata attraverso una vera e propria presa di coscienza di sé. L’Expo ha aiutato moltissimo la città, soprattutto perché ha confermato che si dovesse finalmente investire sul nuovo. Crogiolarsi su quanto fatto nella storia non basta. Serve il coraggio di innovare, ed Expo è stata una scusa per creare una nuova Milano. Come per dire che noi guardiamo avanti con i piedi ben piantati in terra, con la voglia di costruire un futuro a partire dai valori intrinsechi della città. La gente, anche fuori Milano, si è incuriosita perché abbiamo creato discontinuità. Discontinuità che è fondamentale sia nella vita aziendale sia nel nostro mondo in cui la comunicazione gioca un ruolo crescente.
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