L’autorevolezza del giornalismo da ricostruire nell’epoca di fake news e post-verità

27 novembre 2017
Editoriale Open Society off
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Il giornalismo si è evoluto in maniera sostanziale, non solo e non tanto per l’avvento di Internet. È vero, si è passati a una sorta di giornalismo diffuso, partecipativo, i confini tra produttori e fruitori sono diventati sempre più labili: ai lettori viene riconosciuto un ruolo di protagonisti attivi nel processo di newsmaking.

Tutto ciò va di pari passo con la crisi della professione giornalistica, intesa come crisi di autorevolezza del prodotto tradizionale giornalistico. È ancora possibile per il giornalista, oggi, essere ancora considerato un lettore della realtà o un mediatore rispetto ai fatti? Il calo delle vendite dei giornali sembra indicare che la risposta sia no. Per certi versi, è addirittura difficile continuare a coltivare la definizione del giornalista come “cane da guardia della democrazia”.

Nel suo Neogiornalismo. Tra crisi e rete, come cambia il sistema dell’informazione, Mario Morcellini ha spiegato così il fenomeno: “Così come l’approvvigionamento di notizie ha costituito per i moderni uno dei cardini attorno a cui andava fondandosi un nuovo nucleo sociale, la crisi della mediazione giornalistica è in primo luogo un lascito della perdita di peso della società nella vita degli individui nel contesto tardo moderno. Ma è anche il portato del processo di svuotamento delle relazioni significative con istituzioni, politica e vita pubblica che in qualche modo facevano da interfaccia ai bisogni dei soggetti di costituirsi come personalità e identità. In una battuta, al disincanto del mondo è corrisposto il disincanto del giornalismo in quanto racconto del mondo”.

L’analisi di Morcellini è sociologica, ma può rappresentare una bussola per orientarci nel dedalo delle fake news, specialmente nell’èra della post-verità. Ecco, iniziamo proprio dalla “post verità”, parola dell’anno, che l’Oxford English Dictionary definisce come “relativa a circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica del ricorso alle emozioni e alle credenze personali”.

È opinione comune che la vittoria della Brexit in Gran Bretagna sia figlia della post verità, e così l’affermazione elettorale di Trump negli Stati Uniti. Certo è che, grazie alla Rete, ciascuno può alzarsi in piedi ed esercitare un potere di intervento e di produzione della notizia che prescinde dalla veridicità della stessa. Cui prodest? Chi ci guadagna a far circolare informazioni non veritiere ma capaci di formare l’opinione pubblica attingendo alla sfera delle emozioni e delle credenze? Si possono tentare risposte su più piani differenti. La pubblicità di un sito Internet, ad esempio, è tanto più redditizia quanto più numerosi sono i visitatori del sito. Chi la spara più grossa, chi dimostra maggiori capacità di sorprendere, è destinato ad aver successo, obbedendo al vecchio principio secondo il quale un cane che morde un uomo non fa notizia mentre un uomo che morde il cane fa notizia.

Questa considerazione vale se ci vogliamo limitare al solo aspetto della redditività legata alle inserzioni pubblicitarie sui siti più visitati. Se invece vogliamo prendere in considerazione il potere della notizia, il connubio tra fake news e populismo può avere un potere ancor più devastante: in un recente articolo la filosofa Gloria Origgi, della École normale supérieure, fa notare, intelligentemente, che in passato non è esistita un’èra politica della verità, da contrapporre alle bugie della post verità: come dimenticare, ad esempio, la vulgata sui comunisti che mangiano i bambini oppure la favola sulle armi di distruzioni di massa di Saddam Hussein?

La questione di come distinguere il vero dal falso non è certamente nuova: Nietzsche sosteneva che la verità non esiste ed è solo uno strumento del potere. Il vero paradosso di questi ultimi decenni, tuttavia, è che la proliferazione delle fake news nell’èra della post verità sta avvenendo attraverso un sistema, quello del web, che si proponeva come espressione della democrazia partecipativa e che invece si è dimostrato essere un mezzo antidemocratico per eccellenza perché fa leva sul deficit di strumenti di lettura della realtà da parte di molti.

Come difendersi? Un tempo si diceva “l’ha detto l’Ansa, è vero”. Segno dei tempi è che oggi è indifferente se l’abbia detto l’Ansa o meno, il cui motto è sempre stato quello di trasmettere una notizia solo dopo un’accurata verifica della fonte e della veridicità del fatto. Sanzioni penali, civili e amministrative per chi pubblica notizie false sono servite ben poco nei confronti dei media tradizionali, figuriamoci quale effetto di deterrenza potrebbero avere per la rete. A mio avviso, piuttosto, si dovrebbe lavorare sulla crisi di autorevolezza del giornalismo. Sarà forse una strada più lunga da percorrere ma potrebbe procedere di pari passo con un lavoro di responsabilizzazione dei giganti del web. Voglio a tale proposito citare sempre Origgi che, ancora scrivendo di post verità, ha osservato: “la verità è il frutto di complicate procedure di legittimazione dei fatti. Credo sia vero ciò che le persone che hanno autorità per me dicono che è vero. Allora è importante che il mio modo di riconoscere le autorità sia sano, non che io sappia discriminare tra verità e falsità. In un mondo ad alta intensità di informazione, paradossalmente la nostra dipendenza dagli altri per filtrare il sapere è ancora più grande. Dobbiamo imparare a capire quali sono i segnali legittimi per dare autorità a qualcuno e quali quelli illegittimi. Questo lo possiamo fare. Ma che la politica non userà mai la verità come suo alleato, anche di questo possiamo essere certi”.

 

Si ringrazia l’autore per la gentile concessione a riprodurre qui il testo dell’intervento pronunciato in occasione del Festival Città Impresa, Bergamo, 10 novembre 2017

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