Ecco la triplice disuguaglianza che l’Europa deve combattere. Appunti di Fabrizio Barca per una nuova politica di coesione
1 dicembre 2017
LUISS Open ha incontrato Fabrizio Barca, economista ed ex ministro per la Coesione territoriale, durante un suo ciclo di lezioni nell’ambito del Master in European Economic Governance organizzato dalla LUISS School of European Political Economy (SEP).
La disuguaglianza è davvero un problema più americano che europeo?
In questi ultimi trent’anni, l’Europa ha vissuto la stessa storia del resto dell’Occidente, quindi non è sorprendente che sia percorsa da forti ineguaglianze economiche e sociali, cioè di qualità e di accessibilità ai servizi fondamentali come la scuola, la Sanità e la copertura digitale che consente la comunicazione moderna. L’Europa è anche caratterizzata da significative “diseguaglianze di riconoscimento”, cioè di mancato riconoscimento del ruolo delle persone. La diseguaglianza di riconoscimento è quella che investe un lavoratore manifatturiero in un Paese come il nostro in cui ci dimentichiamo che accendiamo la luce grazie all’industria manifatturiera. È la disuguaglianza patita da un lavoratore la cui centralità si è persa nell’eccessivo parlare di terziario avanzato e automazione. La diseguaglianza di riconoscimento è quella oggi radicata nelle aree rurali, dell’Europa come degli Stati Uniti, che avvertono di essere fuori dalla storia, fuori dalla modernità, come se i processi tecnologici e della globalizzazione inevitabilmente rendessero creative e innovative soltanto le città, assunto tra l’altro falso perché i cambiamenti climatici, l’innovazione e la domanda di diversità del capitalismo di oggi rendono le aree rurali potenzialmente ricchissime. L’insieme di queste tre diseguaglianze – reddituale, sociale e di riconoscimento – segue, in tutto l’Occidente, delle faglie territoriali.
Il tema della disuguaglianza, nelle sue varie sfaccettature, è oggi però al centro del dibattito internazionale. Sta dunque cambiando qualcosa?
Ora anche l’attenzione alle faglie territoriali è tornata nell’agenda internazionale, perfino agli occhi di mezzi d’informazione come il settimanale inglese Economist che a lungo non se n’erano occupati. L’Economist ha osservato per esempio che nei 20 anni precedenti al 2014 “il gap nel livello di produttività tra le regioni di frontiera dell’Europa e le regioni che costituiscono il 10% meno sviluppato è cresciuto del 56%”, e ha aggiunto: “A meno che i policy-maker non si confronteranno seriamente con i problemi della diseguaglianza regionale, la furia degli elettori non potrà che aumentare”. Le tre diseguaglianze di cui sopra contrappongono spesso le periferie ai centri, le aree rurali rispetto alle città, e sono diventate così vistose da provocare una reazione rabbiosa verso la modernità, la globalizzazione e il cambiamento tecnologico.
Tuttavia rimane il fatto che le classi dirigenti hanno sbagliato, noi abbiamo sbagliato. La ragione per cui ritroviamo tali diseguaglianze in Europa, sapientemente studiate per esempio dall’economista Branko Milanovic, non è quella indicata dalla vulgata autoritaria; tali disuguaglianze non sono cioè il risultato inevitabile delle nuove tecnologie, dell’apertura alla Cina e ai migranti. Alla radice degli squilibri ci sono invece politiche precise che non hanno saputo governare e indirizzare il cambiamento. Da qualche tempo è infatti subentrata nelle classi dirigenti la sensazione di non poter più governare il cambiamento. Questo atteggiamento è infondato. Qualcosa diventa inevitabile quando è il risultato di un processo che non hai governato ieri. Se vuoi influenzare il domani, dunque, devi governare l’oggi. Il messaggio d’impotenza diffuso dalle classi dirigenti, oltre che errato, è destabilizzante per l’opinione pubblica. Perché quando tu hai sostenuto per anni che a livello comunale non puoi fare niente se non si muovono le regioni, poi che a livello regionale non puoi fare nulla se non si muove lo Stato, che anche a livello statale non puoi fare nulla se non si muove l’Europa, allora cosa resta? In questo modo si stanno spingendo le persone verso il comunitarismo chiuso e verso l’autoritarismo.
La cosiddetta “Politica di coesione” dell’Unione europea non è uno strumento concepito proprio per sanare queste fratture sociali?
La Politica di coesione – così come originariamente concepita fra gli altri da Antonio Giolitti, un nostro grande commissario europeo, e poi da Jacques Delors e Tommaso Padoa-Schioppa, guarda caso un altro italiano – era una macchina costruita per dare ai cittadini nei luoghi e alle persone, sempre nei luoghi, la possibilità di riprendere in mano il proprio destino. Era una politica disegnata per consentire ai cittadini di far pesare le proprie conoscenze nella direzione dello sviluppo. Progressivamente però, con il diffondersi – dalla metà degli anni 90 – dell’approccio rinunciatario in base al quale certi processi andrebbero solo assecondati perché naturali e di mercato, e di fronte alle tensioni sociali che ne sono discese, la Politica di coesione si è vista affidare un ruolo diverso, quello di compensare i danni di processi incontrollati e di garantire la pace sociale. La Politica di coesione è diventata dunque una politica compensativa. In altre parole, soldi a palate ai territori in difficoltà, siano essi il sud, le periferie e le aree rurali. Territori che hanno sempre avuto soldi, ma senza strategia se non quella compensativa che è stata disastrosa perché ha incoraggiato i soggetti locali a diventare intermediari di soldini, di progetti cantierabili e mai valutati per la loro qualità. Così si sono aperti i cantieri per creare occupazione e si è fatta formazione per dare lavoro ai formatori. Insomma, mero assistenzialismo. Questa deriva è stata capita a un certo punto da alcuni studiosi e in particolare da Danuta Hübner, commissaria polacca nell’Unione europea per le Politiche regionali dal 2004 al 2009, anche grazie alla sua provenienza geografica, dalla nuova “periferia” dell’Europa. La commissaria Hübner ha dunque chiamato il sottoscritto a lavorare per la riforma della Politica di coesione, insieme al meglio del pensiero alternativo, e così è nata nel 2009 un’Agenda per la riforma della Politica di coesione. La riforma effettiva della Politica di coesione fu realizzata nel 2013 sulla base di questo disegno.
La Politica di coesione europea è dunque riformata nel 2013, ma in quale direzione? E con quali effetti?
La riforma del 2013 non è progettata male, nel senso che attua effettivamente una discontinuità rispetto all’approccio compensativo-assistenzialistico degli ultimi anni e muove verso quello che io chiamo “place-based approach”. Quest’ultimo approccio ha l’obiettivo di scatenare le conoscenze, di rimuovere gli ostacoli all’innovazione e di favorire un confronto vivo tra conoscenza locale e conoscenza globale. In questo senso noi siamo dei glocalisti: la conoscenza dei territori deve “parlare” con la conoscenza dei grandi centri, delle università e delle grandi corporation. Ma questa seconda, senza la conoscenza dei territori, non serve a nulla.
La prossima domanda è: la riforma fatta ha poi prodotto effetti? In estrema sintesi, direi che le regole sono scritte bene, ma non ci stiamo mettendo l’anima. Le regole contano se le attui credendoci, e la classe dirigente e politica europea non è in questo momento quella dei Delors, dei Giolitti e dei Padoa-Schioppa. Dopodiché miglioramenti si possono ancora fare anche dal punto di vista tecnico, considerato per esempio che la frammentazione dei cinque diversi Fondi per la politica di coesione continua a tutt’oggi a frenarne l’efficacia creando delle filiere settoriali. Il disegno della politica di formazione, per esempio, viene fatto diversamente dal disegno della politica di incentivi alle imprese perché dietro ci sono due fondi diversi. Prima di rimettere mano alle regole scritte nel 2013, ci dovremmo rendere conto che è più grave il fatto che esistano dei fondi separati, che ognuno faccia capo a un direttorato e a un commissario diverso, alimentando filiere politico-amministrativo-burocratiche distinte e che devono coordinarsi prima ancora di cominciare. Una complicazione inutile.
Esistono esempi concreti da cui partire per attuare in maniera più lineare una Politica di coesione?
Innanzitutto vorrei sottolineare che questa Politica di coesione non è appannaggio della sola Europa. Anche gli Stati Uniti, per esempio la attuano. È stato stimato che all’inizio degli anni 2000 la politica federale americana per lo sviluppo – cioè quella politica straordinaria che Washington attua quando ha l’impressione che uno Stato o una regione specifica sia in forte difficoltà – avesse un budget di 197,2 miliardi di dollari l’anno. Nello stesso periodo gli Stati europei e l’Unione europea stanziavano per lo stesso obiettivo 45,5 miliardi di dollari l’anno. Dopodiché il metodo comunemente utilizzato negli Stati Uniti, dove i soldi sono spesi direttamente e in maniera imperativa da Washington, non mi convince. E’ tipicamente rooseveltiano, da pianificatore top-down, andava bene per un secolo fa ma non per una società dove la conoscenza è molto diffusa. Il centro dev’essere forte, intendiamoci, e infatti io raccomando a Bruxelles di prendere 500 nuovi giovani esperti e di mettere delle “truppe” a sostegno delle idee.
A proposito di applicazioni concrete, poi, non dimenticherei poi – in positivo – il caso italiano. C’è l’esempio di OpenCoesione, portale sull’attuazione dei progetti finanziati dalle politiche di coesione in Italia. Qui sono navigabili dati su risorse assegnate e spese, localizzazioni, ambiti tematici, soggetti programmatori e attuatori, tempi di realizzazione e pagamenti dei singoli progetti. Tutti possono così valutare come le risorse vengono utilizzate rispetto ai bisogni dei territori. Così come la sinergia con la nostra “Strategia Aree interne” che, attraverso i regolamenti e i paletti esistenti della Politica di coesione europea, si è data l’obiettivo di contrastare la caduta demografica e rilanciare lo sviluppo e i servizi in certe aree del paese considerate “periferiche”. Parliamo di un prototipo di applicazione dei regolamenti del 2013, cioè del place-based approach. È un intervento che riguarda il 17% del territorio nazionale e 2 milioni di abitanti, perseguito in maniera ininterrotta da quattro Governi della Repubblica. Una strategia originale a sostegno di quelli che chiamiamo i “guardiani rigeneratori” di un pezzo del territorio nazionale, dal governo del quale dipende tanta parte della vita degli altri 58 milioni di italiani. La Strategia delle Aree interne in Italia è la dimostrazione concreta che i regolamenti della Politica di coesione vanno bene. A volerli e a saperli valorizzare.
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