Tutte le proposte di riforma dell’euro (avanzate dalla Commissione) spiegate dal prof. Messori
12 dicembre 2017
LUISS Open ha incontrato Marcello Messori, economista e Direttore della LUISS School of European Political Economy, per commentare le proposte di riforma dell’Eurozona lanciate dalla Commissione europea e che i capi di governo inizieranno a discutere ufficialmente a partire da questa settimana.
Iniziamo dall’idea di far evolvere il Meccanismo europeo di stabilità (ESM) in un Fondo monetario europeo (FME). Cosa cambia davvero?
Il Fondo monetario europeo (FME) non è semplicemente un altro nome che viene attribuito al Meccanismo europeo di stabilità (ESM), insomma non siamo di fronte a un mero cambiamento cosmetico. Ci sono infatti almeno due novità interessanti che distingueranno il costituendo FME rispetto all’ESM. La prima è un rafforzamento delle funzioni di gestione della crisi.
Attualmente l’ESM ha grossomodo quattro funzioni: 1) quella di gestire gli aiuti per gli Stati membri dell’Eurozona che hanno perso l’accesso ai mercati per finanziare il proprio debito pubblico (come è stato il caso con Irlanda, Portogallo e Grecia); 2) quella che deriva dalla prima riunione dello Eurosummit del giugno 2012, quando specie su spinta di Mario Monti fu stabilita la possibilità di un intervento dell’ESM più “leggero” rispetto a quello disegnato per Irlanda, Portogallo e Grecia, cioè un intervento che riguardi gli Stati membri che hanno ancora accesso al mercato ma che sono in forte difficoltà, prevedendosi la possibilità di un aiuto senza l’intervento della Troika, un meccanismo che non è mai stato attivato finora; 3) la possibilità di partecipare alla ricapitalizzazione di banche o settori bancari in difficoltà, passando attraverso il bilancio dello Stato membro che chiede l’aiuto fino a quando non è stato istituito il Single Supervisory Mechanism (SSM) dell’Unione bancaria, e solo successivamente attraverso il bilancio comune dell’ESM; 4) infine un regolamento del Fondo europeo di risoluzione – che costituisce la “seconda gamba” dell’Unione bancaria – prevedeva la possibilità che l’ESM fornisse garanzie, o in caso eccezionale finanziamenti, al Fondo unico di risoluzione (Single Resolution Fund).
Adesso, con la proposta della Commissione, quest’ultima funzione che vede l’ESM – quindi il futuro FME – come “backstop” del secondo pilastro dell’Unione bancaria è espressa molto più chiaramente. Si prevede cioè che, pur con neutralità fiscale nel medio periodo, se il Single Resolution Fund non avesse risorse adeguate a fronteggiare la risoluzione di alcune banche, allora dovrà intervenire il nuovo FME sia con garanzie sia con finanziamenti.
Un ulteriore elemento è stato sottovalutato. C’è un punto di questo documento in cui la Commissione europea ipotizza – un po’ tra le righe – che il FME possa emettere attività finanziarie diverse dalle attuali, soprattutto in funzione di stabilizzazione dell’economia. Ciò a cui pensa la Commissione è probabilmente la possibilità di intervenire per proteggere per esempio gli investimenti in una fase negativa del ciclo economico. Tuttavia c’è anche una lettura diversa, che mi è cara, e cioè che il futuro FME possa a un certo punto emettere un titolo composito – cioè composto dai titoli pubblici di vari Stati membri – per affrontare il problema dell’eccessiva esposizione dei settori bancari nazionali verso i rispettivi debiti pubblici. Questo passaggio apre dunque prospettive inedite che non vanno sottovalutate.
Il FME avrà nuove funzioni rispetto all’ESM, ma anche una nuova governance…
C’è una duplice innovazione che riguarda la governance di questo meccanismo: a) il FME sarà una entità europea, a differenza dell’ESM che oggi non fa parte del setting istituzionale europeo ma è un trattato internazionale; b) il FME continuerà a procedere all’unanimità dei suoi membri per alcune decisioni strategiche, mentre potranno essere prese a maggioranza qualificata rafforzata – cioè con l’85% dei voti – quelle decisioni che hanno a che fare per esempio con la funzione di backstop bancario. Quest’ultimo è un po’ un escamotage, nel senso che 85% dei voti vuol dire che i tre grandi paesi – Germania, Francia e Italia – manterranno un potere di veto.
Alla fine dunque, sul progetto di FME, è prevalsa la linea di Berlino o quella di Parigi?
Sul Fondo monetario europeo c’erano in campo due visioni molto diverse: quella tedesca, che era stata avanzata anche nel cosiddetto “non paper” di Wolfgang Schäuble, ipotizzava che il FME basato sull’attuale ESM combinasse le attuali funzioni svolte dall’ESM (gestore delle possibili crisi dei debiti sovrani degli Stati dell’Eurozona) con quella di controllore ex ante e ex post delle politiche fiscali nazionali. Se fosse passata questa interpretazione, il FME avrebbe assunto nella sua seconda gamba – quella di controllore – funzioni che sono oggi della Commissione europea. La tesi francese, viceversa, era quella di un FME che rafforzasse le sue caratteristiche di gestore delle crisi e quindi in prospettiva diventasse poi un braccio del futuro Ministro europeo dell’Economia e delle Finanze. Mi sembra che la proposta della Commissione Ue sia quasi totalmente in linea con la posizione francese.
Esaminiamo la proposta di far nascere un nuovo Ministro dell’Economia europeo…
Il ministro dell’Economia e delle Finanze europeo per adesso non è grande cosa, perché questo ministro – nelle proposte della Commissione – svolge soprattutto un ruolo innovativo in termini di governance più che per i suoi poteri. Gli si riconosce la funzione di coordinare meglio le politiche fiscali, però non lo si collega esplicitamente a una gestione di un bilancio dell’Unione economica e monetaria. Le funzioni del possibile ministro sono pressoché riducibili a quella di rafforzare la combinazione di politiche fiscali e di rendere più trasparenti i vincoli europei rispetto alle politiche fiscali nazionali. La Commissione è dunque attenta a dire che da una parte questo ministro non sottrae competenze agli Stati membri, dall’altra non toglie poteri alla Commissione in materia controllo dei conti pubblici. Quanto all’innovazione di governance, questo ministro dovrebbe essere anche presidente – per due mandati – dell’Eurogruppo e contemporaneamente vicepresidente della Commissione.
Questa riforma, a differenza di quella del FME, non viene demandata all’attuale consiliatura ma la sua entrata in vigore è spostata alla fine del 2019, quindi riguarda la nuova Commissione. Se fosse questo il disegno del ministro dell’Economia e delle Finanze europeo, allora tanto varrebbe dire che il Vicepresidente della Commissione per gli Affari economici deve essere presidente dell’Eurogruppo. La proposta diventa invece interessante se fosse un primo passo, da collegare poi a un’altra proposta della Commissione che è quella della “linea di bilancio dell’Eurozona” e anche alle nuove funzioni del FME. Per dirla in altre parole, occorre capire se da un “ministro europeo” dell’Economia e delle Finanze si passerà a un “ministero europeo” che porti nel lungo termine a una politica fiscale europea, passando nel frattempo attraverso un accentramento sotto di sé delle funzioni del FME, di quelle di controllo della Commissione europea e della linea di bilancio dell’Eurozona. Ma tutto questo attualmente non c’è.
Cos’è e come funzionerebbe la cosiddetta “linea di bilancio” dell’Eurozona?
L’idea della Commissione è di avere una linea di bilancio all’interno di un bilancio multi annuale dell’Unione europea un po’ ridefinito. La Commissione si muove con una certa speditezza sul punto perché, entro il 2018, dovrà proporre la nuova struttura del cosiddetto Multiannual financial framework per il settennato 2020-2027. Nel frattempo Bruxelles non intende rimanere con le mani in mano, perciò nel documento ipotizza due esperienze pilota. Una è sui fondi strutturali di investimento e l’altra su un programma di finanziamento delle riforme strutturali. E’ un cammino interessante perché non è coercitivo, gli Stati membri possono scegliere se partecipare ai progetti. Non una novità sconvolgente, ma anche qui si aprono prospettive interessanti. Vi sarebbe stata la possibilità di un altro esperimento pilota, legato alla proposta del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e del Governo italiano: uno schema di garanzia sulla disoccupazione. Questa possibilità non si è concretizzata.
Infine lo spinoso capitolo del Fiscal Compact…
La Commissione europea propone di trasformare il Fiscal compact – o più precisamente il “Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria” – in un istituto interno alle normative europee e non in un nuovo Trattato europeo visto che tutte queste proposte di Bruxelles sono fatte a trattati invariati. Questa trasformazione del Fiscal compact – entrato in vigore il 1° gennaio 2013 – dovrebbe avvenire entro il 1° gennaio 2018. Da economista osservo che i contenuti di politica economica del Fiscal compact, e in particolare dell’articolo 3 dello stesso, non innovano rispetto a regolamenti e direttive europee già in vigore e già contenuti nel Six Pack e nel Two Pack. L’unica differenza è che il Fiscal Compact prevede il recepimento, nel più alto livello possibile della legislazione nazionale, del pareggio di bilancio strutturale. Dove la definizione di “pareggio di bilancio strutturale” è che, nei paesi con un debito pubblico superiore al 60% del Pil, non sia superato un deficit annuale dello 0,5% del Pil. Da economista ritengo che non abbia molto senso ingaggiare una battaglia diplomatica contro il Fiscal compact proprio perché i suoi contenuti sono già presenti in altre norme comunitarie in vigore. Resta vero che l’inserimento del Fiscal compact nel quadro normativo europeo ne rafforza l’applicazione e la cogenza. D’altro canto, abbandonando il Fiscal Compact perderemmo alcuni elementi di flessibilità che in esso sono contenuti e che – a mio giudizio – hanno anche offerto fondamenta giuridiche alle politiche monetarie straordinarie della Banca centrale europea come l’OMT (Outright Monetary Transactions) e il QE (Quantitative Easing).
Sul fronte dell’Unione bancaria, il cui completamento è caro all’Italia e che finora è stato invece frenato dalla Germania, cosa cambia?
La Commissione torna a prospettare il completamento dell’Unione bancaria e dell’Unione dei mercati di capitali. Alcuni mesi fa essa ha infatti proposto di superare lo stallo tra una posizione come quella italiana, che richiede forme di condivisione del rischio, e la posizione tedesca, che richiede una preliminare riduzione dei rischi da parte dei settori bancari nazionali, mediante un compromesso. Tale compromesso si basa su un percorso graduale di costruzione dello schema europeo di garanzia dei depositi bancari. Nella fase transitoria, vi è solo un’assicurazione europea per il finanziamento, in caso di bisogno, dei Fondi nazionali di garanzia. Nel contempo i vari paesi riducono il rischio presente nei bilanci degli istituti di credito. Ciò dovrebbe sfociare, per la fine del 2018, nell’effettiva costruzione del sistema europeo di assicurazione dei depositi (EDIS).
Qual è la posizione dell’Italia in questo confronto sul futuro istituzionale dell’Europa?
Il programma di riforme proposto dalla Commissione europea entra in azione dall’inizio del prossimo anno e potrebbe concludersi alla metà del 2019. A ridosso delle elezioni europee del 2019, però, difficilmente la Commissione e gli altri attori potranno produrre decisioni radicali. Quindi la vera finestra in cui intervenire in questo dibattito dura da oggi fino all’autunno 2018. L’Italia, con un governo dimissionario o con la plausibile difficoltà di formare maggioranze parlamentari dopo le elezioni politiche in primavera, sarà forte a sufficienza per intervenire a Bruxelles? Oggi è difficile scommetterci. Ecco la dimostrazione che per il nostro paese il rischio maggiore è quello politico-istituzionale, assieme a quello associato al debito pubblico.
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