Perché tutti (s)parlano della Riforma Fornero ma nessuno l’abolisce

19 dicembre 2017
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Tutti ne parlano ma nessuno la abolisce. Questo è il destino della riforma Fornero delle pensioni.

Per quanto invisa a tutte le forze politiche, a cinque anni dalla sua approvazione, nessun Governo è stato in grado di modificare le innovazioni strutturali che ha introdotto nel nostro sistema previdenziale, dall’innalzamento dell’età pensionabile all’abolizione delle pensioni di anzianità.

I diversi provvedimenti che sono intervenuti in materia, infatti, dall’Opzione donna, APE o APE social, se sono stati utili per attenuare per alcune categorie di lavoratori le gravi conseguenze del drastico aumento dell’età pensionabile a 66 anni e 7 mesi, non hanno certo rivoluzionato l’impianto della riforma.

E le stesse considerazioni valgono per l’emendamento, appena approvato in Senato, alla Legge di Bilancio 2018 con il quale è stato sterilizzato per i cosiddetti “lavori gravosi” l’innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni, disposto con il decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 289 del 2017. Come accaduto in occasione dell’Opzione donna e dell’APE, anche in questo caso i rivoluzionari proclami della gran parte delle forze politiche in ordine alla necessità di abolire la riforma Fornero si sono tradotti nell’approvazione di misure che in definitiva si risolvono in deroghe di portata assai limitata all’impianto della riforma.

La vecchia regola dell’adeguamento dell’età pensionabile e la nuova campagna elettorale

Ma procediamo con ordine. Il decreto in questione, che ha innalzato a 67 anni l’età pensionabile fissata dalla riforma Fornero in 66 anni e 7 mesi, è stato introdotto in attuazione del principio dell’adeguamento automatico dell’età pensionabile all’aspettativa di vita. Si tratta di un principio fondamentale per assicurare la tenuta del sistema previdenziale, in quanto mette in relazione diretta le prestazioni previdenziali con l’aspettativa di vita, che a ben vedere è stato introdotto nel nostro ordinamento diversi anni prima dell’approvazione della riforma Fornero[1]. Il suo antecedente è infatti l’art.1 della Legge n. 247 del 24 dicembre 2007 (Riforma Prodi-Damiano), che ha introdotto il criterio di calcolo dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo in base alle aspettative di vita, poi ripreso e modificato dal successivo Governo Berlusconi con gli articoli. 22-ter, comma 2 D.l. n. 78 del 2009 (norma Sacconi) e 12 del D.l. n. 78 del 2010, che hanno disposto l’adeguamento automatico dell’età pensionabile alle aspettative di vita nella formulazione finale che è stata ripresa dall’art. 24, comma 13, del D.l. n. n.201 del 2011 della riforma Fornero.

Così, quando l’aspettativa di vita è tornata a crescere di cinque mesi, dopo un anno di stop nel quale la speranza di vita si era ridotta[2], e il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha emanato il decreto di adeguamento dell’età pensionabile, si è aperto un feroce fuoco di fila da parte di tutte le forze politiche, anche quelle che avevano votato la riforma Fornero, che si sono immediatamente dichiarate contrarie all’innalzamento dell’età pensionabile, anche perché nel frattempo si stava aprendo la campagna elettorale.

Secondo alcuni, il blocco dell’aumento dell’età pensionabile avrebbe dovuto essere generalizzato a tutti i lavoratori. Secondo altri, il blocco avrebbe dovuto riguardare solo alcune categorie di lavoratori. Secondo il Presidente dell’INPS, Tito Boeri, un blocco generalizzato della misura avrebbe comportato un aggravio di spesa di 141 miliardi di euro.

Così, al termine di un ampio dibattito, il Governo Gentiloni non è riuscito a fare altro che introdurre in occasione della Legge di Bilancio 2018 un’esenzione dall’innalzamento di cinque mesi dell’età pensionabile con riferimento ai lavoratori che rientrano in 15 categorie di lavoratori occupati nei c.d. “lavori gravosi”, ed in particolare camionisti, addetti alla concia delle pelli, muratori, facchini, operai. In pratica, mentre per gli altri lavoratori a partire dal 2019 si andrà in pensione a 67 anni, per queste rimane ferma l’attuale età pensionabile di 66 anni e 7 mesi, con un costo che, secondo i calcoli del Governo, dovrebbe comportare un aumento della spesa pensionistica di 100 milioni, che sale a 122 se si considerano anche le spese per il fondo di integrazione salariale.[3] Si tratta di un’operazione significativa ma limitata, posto che il blocco introduce un beneficio di cinque mesi che nel 2019 riguarderà 14.600 persone (nel 2019), che di certo disattende le velleità rivoluzionarie delle forze politiche, come peraltro lamentato in occasione della manifestazione prontamente indetta il 2 dicembre dalla CGIL.

Si torna così alla domanda fondamentale. Perché se tutte le forze politiche sono d’accordo, non si è riusciti a fare di più? Purtroppo la risposta è molto semplice. Perché non ce lo possiamo permettere, per ragioni economiche e demografiche. L’abolizione della Riforma Fornero costerebbe, infatti, tra gli 80 e i 90 miliardi di euro, ovvero una somma troppo elevata per un paese che gia oggi presenta il terzo debito pubblico del mondo e nel quale il numero dei pensionati aumenta ogni giorno mentre si riduce drasticamente la popolazione attiva che paga i contributi.

Demografia sottosopra: la piramide rovesciata

Nel 1968, quando è stata approvata la riforma Brodolini, che introduceva le pensioni si anzianità e il metodo di calcolo retributivo delle prestazioni previdenziali, la struttura demografica del nostro paese era fatta a forma di piramide. La guerra era finita da poco, c’erano pochi anziani e molti giovani. Si pensi che nel 1970 ogni mamma aveva in media tre figli (per l’esattezza 2,70 nel 1970, il punto più alto raggiunto dal tasso di fertilità nel nostro paese). L’aspettativa di vita era di 65 anni, gli italiani andavano in pensione a 55 anni e quindi le prestazioni previdenziali dovevano essere corrisposte in media per dieci anni. Ciò significava che ciascun lavoratore versava almeno 30 anni di contributi, mentre percepiva per soli 10 anni una prestazione previdenziale finanziata dai contributi delle nuove e numerosissime generazioni che accedevano al mercato del lavoro. I contributi di tre figli potevano tranquillamente finanziare 10 anni di pensione del padre. E per questo, a partire da quella riforma, il nostro sistema previdenziale assunse le generose caratteristiche strutturali che poi ne metteranno in crisi la sostenibilità quando cambierà la demografia, ovvero: il sistema retributivo, le pensioni di anzianità e le pensioni di reversibilità (poiché i padri lavoravano e le madri si prendevano cura dei tanti figli si immaginò che fosse giusto e necessario creare un sistema che, in caso di decesso del padre, mantenesse alla madre nella sostanza lo stesso reddito del padre).

Senonché, come è noto, nel corso degli anni la piramide demografica si è progressivamente rovesciata. Al punto che oggi, dopo il Giappone, siamo diventati il paese più vecchio al mondo.

L’Istat ci dice che l’età media è di oltre 44 anni. Circa il 22,3% della popolazione ha oltre 65 anni, quasi un italiano su quattro. Ma v’è di più, posto che la tendenza del nostro paese all’invecchiamento sta aumentando in maniera particolarmente veloce. Basti pensare che non solo siamo i più vecchi, ma siamo anche quelli che in Europa invecchiano più rapidamente, con aumenti dell’età degli occupati che in alcune fasi aumenta di sei mesi ogni anno o poco meno. Secondo l’Istat, l’età media della popolazione passerà dagli attuali 44,7 a oltre 50 anni del 2065, con un aumento definito “certo e intenso”. Addirittura, secondo i dati OCSE, nel 2050 gli over 65 raddoppieranno e in Italia ci saranno 74 over 65enni ogni 100 persone in età da lavoro, ovvero tra i 24 e i 64 anni, contro i 38 attuali.[4]

Se la popolazione invecchia, la natalità si riduce. Un trend che purtroppo si è aggravato anche nel 2017, al punto che le donne italiane hanno in media 1,27 figli, quando nel 2010 il dato era ancora a 1,34 e, come già visto nel 1970 era a 2,70.

In meno di 40 anni, la piramide demografica si è rovesciata e sta completamente saltando l’equilibrio che dovrebbe esistere tra quanti vanno in pensione e quanti devono finanziare il sistema previdenziale.  Basti considerare che se le attuali tendenze saranno confermate, nel 2030 andranno in pensione un milione di  c.d. baby boomers, a fronte di poco più di 400 mila nuove nascite.

Di fronte a dati di questo tipo, mentre paesi simili come la Francia e giganti economici come la Cina cambiavano drasticamente le proprie politiche economiche e sociali a cominciare da quelle per la natalità, rimettendo addirittura in discussione in Cina la storica politica del figlio unico, il nostro paese è rimasto inerme, limitandosi ad approvare sull’onda dell’emergenza riforme previdenziali che però incidono solo sulla spesa previdenziale e non sugli introiti contributivi necessari a finanziarla.

Infatti il nostro sistema di welfare non solo non sostiene chi fa figli, ma con ancora  maggior difficoltà riesce a trovare un lavoro per quelli che ci sono, che quindi non riescono neanche a pagare i contributi, posto che ad oggi la disoccupazione giovanile tra i 15 e i 24 anni è ancora al 35,1%, dopo aver toccato l’anno scorso quota 40%. Statistiche che sono ancora più dure laddove si consideri che dal nostro Paese ogni anno fuggono oltre 40 mila giovani che vanno all’estero a ricercare lavoro, così ingenerando un impoverimento di risorse che Confindustria, tenendo conto dei costi per la loro formazione, stima intorno ai  14 miliardi di euro l’anno.[5]

Ciò a maggior ragione laddove si consideri invece che gli introiti contributivi conseguenti al lavoro degli immigrati, si aggira intorno ai 5 miliardi di euro,[6] che se non sono sufficienti a compensare i contributi pagati alle gestioni straniere dai nostri giovani, comunque sia alleviano il nostro dissesto strutturale. Non è un caso che l’INPS abbia chiuso il bilancio 2015 con un risultato economico di esercizio negativo per 16.297 milioni di euro, nonostante i 5 miliardi di introiti che derivano dai lavoratori immigrati e il fatto che le uniche gestioni in attivo siano quelle con meno pensionati a carico, ovvero quella dei liberi professionisti (+3,1 miliardi) e quella dei lavoratori parasubordinati (+7,1 miliardi).

La riforma organica che servirebbe all’Italia

Per assicurare la tenuta del sistema previdenziale e a maggior ragione per finanziare l’abolizione della riforma Fornero che tutte le forze politiche a parole dicono di volere, sarebbe allora necessario l’intervento diretto dello Stato, il che significherebbe o aumentare il debito oppure aumentare le tasse. Ma poiché lo Stato italiano ha ormai accumulato il terzo debito pubblico del mondo, e tutti convengono sul fatto che la pressione fiscale è insostenibile, le forze politiche sono restie ad aumentare il cuneo fiscale e mancano le risorse per le politiche a sostegno della famiglia, è agevole prevedere che, una volta passata la stagione elettorale, tutte le velleità riformiste in materia di previdenza che oggi riempiono i programmi elettorali e le pagine dei giornali rimarranno nel cassetto.

Un vero peccato perché invece il nostro paese avrebbe bisogno di una riforma organica, da fare con calma lontano dall’emergenza finanziaria, volta a riportare maggior equità in un sistema previdenziale nel quale accanto a molte categorie di lavoratori “precoci”, “gravosi” e “usuranti”, per i quali sarebbe giusto ridurre l’età pensionabile, esistono ancora decine di migliaia di baby pensionati che fanno il doppio lavoro e di ex politici, nazionali o regionali, che continuano a percepire vitalizi fuori dal tempo e da qualsiasi logica.

P.S. Per l’Oxford Dictionary la parola dell’anno è “youthquake”, traducibile più o meno con “terremoto giovanile”, inteso come la discontinuità a livello sistemico portata dai giovani, una ventata di freschezza che dovrebbe servire appunto a rinnovare Paesi e società.

Anche alla luce delle polemiche sulle pensioni che hanno animato questo inizio di campagna elettorale, non può certo dirsi che questo terremoto giovanile sia riuscito a smuovere le coscienze dei politici. Se esiste, speriamo che riesca a farlo su quelle degli elettori, perché qualsiasi riforma della previdenza, per essere sostenibile, non potrà prescindere dall’affrontare la questione giovanile…

[1] Ed infatti, da dati INPS, tra il 2012 e il 2021, anche tenendo conto dei costi per le salvaguardie dei cosiddetti esodati, la riforma Fornero darà 80 miliardi di euro di risparmi. Nel Rapporto diffuso dall’ente previdenziale, emerge che il risparmio si concentra sul breve termine, con il picco negativo per la spesa nel 2019 (poco sopra l’8,6% del Pil).  Con gli anni, la spesa torna a risalire, restando comunque inferiore a quella prevista nelle riforme precedenti (con ulteriori risparmi, oltre gli 80 miliardi stimati nel periodo 2012-2021) fino al 2045, quando incrocia e poi supera le curve delle altre riforme in termini di spesa in rapporto al Pil (poco sotto il 10,5%).

[2] Nel 2015, per la prima volta dall’unità di Italia, la speranza di vita è calata per gli uomini la speranza di vita è calata di due mesi, da 80,3 anni a 80,1 per gli uomini, mentre per le donne si è abbassata di tre mesi, passando da 85 anni a 84,7. Nel 2016 l’aspettativa di vita è tornata a crescere.

[3] Nella relazione tecnica si legge che l’esonero per i lavori gravosi dall’aumento dell’età pensionabile “non altera strutturalmente la sostenibilità di medio-lungo periodo della spesa pensionistica, della finanza pubblica e del debito”. I costi complessivi per il sistema previdenziale ammontano a 94 milioni nel 2018, 121,9 milioni nel 2019, 276,7 milioni nel 2020, 261,6 milioni nel 2023 per arrivare a 300 milioni nel 2027.

[4] Nel decennio intercorrente tra il 1993 e il 2003, da dati Istat, la popolazione attiva è invecchiata di appena un anno, passando da una media di 38,2 anni a 39,3. Dal 2008 al 2015 si è avuto un incremento costante dell’età,  partendo da 40,5 anni e arrivando a 43,3 anni. Nei primi tre trimestri del 2016, il dato si assesta sui 43,6 anni di media. E’ altresì evidente il rallentamento sia delle nuove entrate dei giovani nel mondo del lavoro (-204 mila tra il 2008 il 2015), sia delle uscite dei più adulti (-255 mila nei sette anni), soprattutto per effetto del prolungamento della vita lavorativa. I dati attestano inoltre che, nonostante un livello di istruzione di gran lunga maggiore, la quota di occupati della fascia15-34 anni che svolge un lavoro non qualificato è simile a quella della classe 55-64 anni, con la conseguenza che tra i giovani l’incidenza dei sovraistruiti è quasi tripla (37,1 per cento contro il 13,0 degli adulti).

[5] I dati Istat attestano un costante aumento dell’emigrazione dei giovani: si pensi che da una stima di circa 60 mila espatri del 2010 si è passati agli oltre 108 mila del 2015, la metà dei quali era composta da lavoratori nella fascia tra i 20 e i 40 anni. Come sottolineato dal “Country Report Italy 2016” della Commissione Europea, Bruxelles,2016, si tratta di giovani in possesso di un’educazione universitaria. Viceversa tra gli stranieri della fascia tra 25 e 64 anni che risiedono in Italia, appena l’11,5 per cento può vantare un titolo comparabile alla laurea

[6] Secondo l’INPS, ogni anno gli iscritti provenienti da un paese estero versano circa 8 miliardi di contributi e ne ricevono 3 in termini di pensioni e altre prestazioni sociali, con un saldo netto di circa 5 miliardi.

L'autore

Michel Martone è Professore ordinario di Diritto del Lavoro e Relazioni Industriali.  È stato Vice Ministro del Lavoro nel Governo Monti, nonché Visiting Fellow presso la School of Industrial and Labor Relations dell’Università di Cornell (New York)


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