Come Europa e Italia potrebbero fronteggiare con successo le sfide del nuovo ordine mondiale

21 dicembre 2017
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Timore e disordine sono le caratteristiche distintive dello stato attuale degli affari mondiali. Mentre gli Stati Uniti stanno compiendo un passo indietro rispetto al loro tradizionale ruolo di potenza egemonica nell’ordine globale, e Cina e Russia si fanno invece avanti, l’UE procede a tentoni, mostrando disunione e incoerenza (a causa in particolar modo degli emergenti movimenti populisti), oscillando tra le rinnovate ambizioni franco-tedesche di un’Europa federale e l’incapacità, da parte degli stati membri occidentali, di integrare gli Stati centro-orientali quali Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria. Tali Paesi, dal canto loro, dipingono spesso Bruxelles come un’entità estranea e non democratica. In questo scenario confuso, l’Italia, un tempo benvenuto mediatore tra atlantisti ed europeisti, così come voce autorevole nelle questioni mediterranee e mediorientali, fatica a trovare un ruolo credibile e potrebbe correre il rischio di divenire un attore irrilevante.

Concentriamoci più da vicino su questi ambiti così diversi. Per quanto riguarda il panorama internazionale, la percezione immediata di molti analisti è che il mondo stia scivolando verso un inquietante stato di disordine, senza una struttura istituzionale in grado di gestire i focolai di tensione e conflitto che, sempre più e quasi contemporaneamente, stanno emergendo in diverse parti del mondo. Rispetto al passato, ciò che desta maggiore preoccupazione nella condizione attuale è l’assenza di un accordo tra le principali potenze per rispondere alle minacce transnazionali che i Paesi singoli non possono gestire individualmente.

In tali circostanze, il mantenimento di pace e sicurezza internazionali è diventato estremamente complicato per le Nazioni Unite. In realtà, alla luce dei frequenti interessi contrastanti tra i Paesi con potere di veto, le Nazioni Unite non sono in grado, da sole, di risolvere le crisi. Nel suo discorso alla recente assemblea generale annuale dell’ONU, il Presidente Donald Trump ha fatto riferimento alla sovranità per venti volte in quarantadue minuti, indicandola come il primo dei tre “pilastri della pace” – gli altri due sono sicurezza e prosperità. “In quanto Presidente degli Stati Uniti”, ha detto, “metterò sempre l’America al primo posto, proprio come voi, leader dei vostri paesi, metterete e dovrete sempre mettere il vostro paese al primo posto”. Si tratta di un commento inappropriato, in quanto di fatto incoraggia l’adozione di una nuova dottrina della sovranità, le cui conseguenze e possibili implicazioni nell’arena internazionale non sono ancora prevedibili.

Un’enfasi sulla sovranità, di per sé, non è per forza allarmante, specialmente se a farlo è un Paese, come gli Stati Uniti, che ha delineato l’architettura istituzionale internazionale, creata subito dopo la Seconda Guerra Mondiale per mantenere la pace e il progresso economico a beneficio dell’umanità. Del resto, eravamo tutti abituati al fatto che, tradizionalmente, il modo di intendere la sovranità da parte degli Stati Uniti non aveva mai trascurato il concetto di responsabilità condivisa nella gestione dei problemi più pressanti. A tale scopo, la diplomazia americana si sforzava di rendere chiari i propri piani, affinché le altre principali potenze fossero consapevoli degli obiettivi, delle regole e della visione che guidavano il comportamento del Paese nel perseguimento della stabilità mondiale.

Purtroppo, non è questo il caso dell’attuale Presidente degli Stati Uniti.  Al contrario, Donald Trump non è riuscito a dar forma ad alcun piano politico di affari esteri che fosse meditato, coordinato e comprensibile. Finora, Trump ha chiaramente preferito azioni emotive e gesti teatrali rispetto a un impianto coerente. Il bombardamento di una base aerea siriana in risposta a un attacco chimico sferrato da Damasco nella provincia di Idlib, le ripetute minacce di distruzione totale della Corea del nord per i suoi test di missili balistici intercontinentali o, più recentemente, la sua sorprendente decisione di riconoscere Gerusalemme come capitale storica di Israele – senza alcuna precondizione o precedente consultazione dei maggiori alleati – non sono che gli esempi più noti di un modo di fare politica apparentemente improvvisato. Nessuno di essi fa parte di un piano politico globale o quantomeno regionale (asiatico e mediorientale).

Pertanto, non dovremmo essere sorpresi dalla notevole perdita di legittimità, da parte degli Stati Uniti, nel controllo degli affari internazionali. Ma ciò è un male, specialmente per quanti ancora ricordano la decisione illuminata, presa subito dopo la Seconda Guerra Mondiale dall’allora Presidente americano Franklin Delano Roosevelt, di dare vita alle istituzioni di Bretton Wood. Scopo di queste istituzioni era di prevenire le conseguenze destabilizzanti della guerra – vale a dire le disuguaglianze economiche e la mancanza di eque prospettive di sviluppo per tutti i Paesi di “buona volontà”. Sfortunatamente però nessuna di tali Istituzioni sta funzionando a dovere e anzi esse hanno perso gran parte della loro autorità (inclusi l’OMC e l’FMI).

Tuttavia, se Washington non ha ragioni di sentirsi soddisfatta, Bruxelles deve fare i conti con problemi ancora più seri, in quanto l’Europa sta affrontando diverse crisi in piena ebollizione. Forse il primo e principale grattacapo è il risultato inconclusivo delle elezioni tedesche dello scorso settembre, che hanno lasciato Angela Merkel, una volta saldamente al potere, in una posizione di imbarazzo; anzi, sostengono gli esperti, sembra che il Cancelliere appaia alla mercé degli eventi e in primo luogo dei Liberal-democratici dell’FDP, il cui leader, Christian Lindner, ha sabotato il tentativo della Merkel di formare una coalizione di governo con i Verdi e i Socialdemocratici guidati dall’ex presidente dell’europarlamento Schultz (SPD).

Quale che sia l’esito di questo braccio di ferro – e anche se la decisione finale sarà di ricostruire la “Grande Coalizione” o se, in alternativa, saranno convocate nuove elezioni – è difficile immaginare che il governo tedesco, qualunque siano le sue intenzioni, possa rinnovare un rafforzato asse Parigi-Berlino. Tale idea infatti richiederebbe un impegno attivo per un’Unione Europea sempre più integrata, ma sarebbe una mossa suicida (elettoralmente parlando) per la “Grande Coalizione”, mentre sarebbe una benedizione per il rafforzamento dell’estrema destra rappresentata dall’Alternativa per la Germania (AfD) che, grazie al contraccolpo populista a seguito di iniziative europee in merito a migrazioni e riforme finanziarie, è ora il terzo partito in Germania.

Bisogna forse provare frustrazione, di fronte all’altolà tedesco all’abbozzo di piano della Commissione sulle riforme dell’eurozona? Non necessariamente. Infatti, potrebbe essere un bene che qualcuno nelle alte gerarchie di Berlino abbia mostrato gli artigli e bloccato un nuovo tentativo da parte della Commissione Europea di sottrarre potere dagli Stati membri, per promuovere una revisione della struttura che regola la moneta unica. Certo, l’UE ha un bisogno disperato di riforme. Il problema è, però, di quali riforme parliamo. La disputa a riguardo va naturalmente ben oltre sia la tecnocrazia di Bruxelles che gli aspetti tecnici, come ad esempio se sia o meno giunto il momento di accelerare il completamento dell’unione bancaria e rafforzare l’Euro.

La questione è essenzialmente politica e come tale dovrebbe essere affrontata in primo luogo dai governi. Ci sono riforme che sono politicamente più urgenti, perché riguardano la mancanza di coesione tra i ventotto Stati membri e le aspettative dei loro cittadini, che hanno portato all’insorgere dei populismi e che richiedono, da parte dei governi, misure appropriate e rassicuranti. Con un occhio al futuro, la riforma più urgente consiste nel limitare le prerogative legislative della Commissione Europea, che, tra le altre cose, metterebbe la parola fine alle potenti lobby che quotidianamente a Bruxelles trattano con i funzionari, “sopra la testa” degli Stati membri.

Molti analisti ritengono che sia giunto il tempo di ascoltare, possibilmente attraverso referendum, l’opinione pubblica europea e chiedergli se l’attuale funzione legislativa della Commissione Europea sia ancora in linea con i principi democratici. A un primo sguardo, e da un punto di vista legale, la Commissione non soddisfa i prerequisiti di responsabilità politica e trasparenza. Dovrebbe pertanto essere di interesse generale un’indagine approfondita della questione. All’inizio, quando il diritto di iniziare il processo legislativo venne riconosciuto nei Trattati di Roma, vigeva una situazione alquanto diversa. Ora invece, ciò che serve maggiormente è creare un “nuovo spirito” nell’Unione, allo scopo di tenere insieme gli attuali Stati membri ed evitare un processo disgregativo che, prima o poi, potrebbe trascinare l’Italia.

Consideriamo i fatti. L’Italia non può permettersi di lasciare che la globalizzazione continui a essere non regolamentata e deve al contrario rafforzare le proprie politiche pubbliche, in particolare le politiche della globalizzazione, per proteggere il suo sistema economico da capitali speculativi non controllati (non da investimenti diretti) e da pratiche commerciali non eque. A tale proposito potrebbe essere utile prendere in esame l’idea di “un’Europa che protegge”, avanzata dal Presidente francese Emmanuel Macron. Inoltre, diverse disfunzionalità minano il settore pubblico italiano, sia al livello nazionale che a quello regionale: per quanto riguarda il primo, sebbene l’Italia sia recentemente riuscita a ridurre il deficit di bilancio ben al di sotto del tetto europeo del 3%, nonostante il QE promosso dalla Banca Centrale Europea, non è stato fatto nessun progresso sostanziale per ridurre l’enorme debito pubblico (133% del Pil alla fine del 2016).

Altra questione tanto seria quanto vecchia è quella relativa alla traballante gestione pubblica di molte regioni meridionali, problema che rischia di riaccendere la divisione italiana tra le regioni settentrionali e l’insieme di quelle centro-meridionali. L’inadeguatezza da parte delle burocrazie regionali al Sud di individuare progetti in grado di beneficiare dagli speciali fondi strutturali dell’UE è una seria disfunzione e dovrebbe essere un segnale per il governo, affinché non sia troppo ambizioso con l’obiettivo di “un’Unione sempre più integrata” Attualmente l’Italia è, anche a causa della sua incapacità di utilizzare i fondi disponibili dell’UE, forse in modo inaspettato, un contribuente netto al bilancio dell’Unione per un ammontare di circa 5 miliardi di euro – il che contrasta con la sua necessità di risorze finanziare atte a sostenere la crescita economica.

Tale anomalia è resa ancora più dolorosa dal carico fiscale che l’Italia deve sostenere per mantenere in funzione i costosi meccanismi di sicurezza ai suoi confini per far fronte alla questione quanto mai grave dell’immigrazione. Sarebbe consigliabile che, in ragione del caos nel Mediterraneo e nei Paesi del Medio Oriente, che costituisce una seria minaccia anche per la sicurezza europea, il governo italiano richiedesse con forza che gli fosse garantita maggiore flessibilità nell’applicazione degli arbitrari criteri di Maastricht; è probabile che in ciò l’Italia riceverebbe da altri Stati membri un sostegno che indurrebbe il Consiglio europeo ad acconsentire. L’Italia potrebbe a quel punto assumere la guida, insieme a partner dello stesso orientamento, nella promozione di un diplomazia preventiva rafforzata nell’area, che includa la gestione delle crisi, riempiendo il vuoto lasciato dal ritiro degli Stati Uniti. Resta tuttavia un aspetto delicato da tenere in considerazione.

L’iniziativa qui suggerita non può infatti trascurare il fatto che la Russia è divenuta, nel frattempo, un attore influente nella regione. Questo nuovo fattore, che implica la necessità per l’UE di istituire strette consultazioni politiche con Mosca, richiede prima una soluzione al problema delle sanzioni attualmente imposte alla Russia. Non si tratta di un’impresa proibitiva, e in ogni caso val la pena tentare. In realtà, secondo alcuni analisti l’annessione della Crimea da parte della Russia è da un punto di vista meramente legale assimilabile all’espropriazione forzata dell’allora provincia autonoma del Kosovo, subita dalla Serbia su iniziativa degli Stati Uniti.

Chi potrebbe negare l’importanza di un riavvicinamento tra America e Russia, con la mediazione dell’Unione Europea? Sarebbe, tra le altre cose, un buon test di come il futuro ordine mondiale, basato su sfere di influenza, potrebbe servire a riportare stabilità nel Mediterraneo e nel Medio Oriente e , al contempo, ad aprire la strada all’equa risoluzione, con la partecipazione attiva della Cina, di altre crisi internazionali che minacciano la pace nel mondo.

L'autore

Antonio Badini insegna nel Dipartimento di Scienze Politiche della LUISS. È Direttore Generale dell’International Development and Law Organization ed è stato Ambasciatore d’Italia in Algeria, Egitto e Norvegia


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