“Frugalità” non fa per forza rima con “povertà”, scrive Emrys Westacott
12 gennaio 2018
L’argomento che il nostro benessere economico dipende dal mantenimento o dall’accrescimento degli attuali livelli di produzione e di consumo soffre di mancanza di immaginazione. Immagina di cambiare uno degli elementi – la domanda – tenendo costante tutto il resto. Ipotizza che la nostra economia e la nostra società siano organizzate sostanzialmente come lo sono oggi, ma con la gente che spende molto meno, fa più cose in proprio e in generale cerca di realizzarsi nei modi raccomandati dai filosofi dell’antichità e dagli psicologi dei nostri giorni. Se questo avvenisse è altamente probabile che per molte persone le conseguenze sarebbero pesanti, dal momento che una significativa riduzione della domanda di beni e servizi porterebbe ad alti livelli di disoccupazione. E questo è il punto cruciale del problema: le persone perdono il lavoro e di conseguenza precipitano nella povertà con tutto ciò che ne consegue – ansia, depressione, peggioramento delle condizioni di salute, aumento del debito pubblico e così via […].
In generale le società tecnologicamente avanzate e benestanti come gli Stati Uniti teoricamente possiedono ricchezze, risorse e talento sufficienti a far sì che tutti i loro membri vivano nell’agio. Il problema non è quello della scarsità di risorse. Il problema che verrebbe a crearsi con il calo della domanda dei consumatori riguarda esclusivamente il modo in cui sono organizzate le cose, in particolare riguarda gli accordi economici che attualmente disciplinano le ore lavorative, le condizioni di lavoro, le retribuzioni, i benefit e così via.
Ci sono due modi assolutamente ovvi per cercare di far fronte al problema della disoccupazione dilagante a seguito di una brusca caduta della domanda: trovare un lavoro alternativo proficuo per coloro che sono stati licenziati e promuovere una riduzione generale delle ore lavorative.
Ovviamente è più facile a dirsi che a farsi. E sicuramente agli occhi di molti lettori, specialmente negli Stati Uniti, queste proposte risulteranno un’utopia irrealizzabile […]. Il governo potrebbe aiutare a creare dei posti di lavoro, a finanziare la riqualificazione e a ridurre le ore lavorative. Questi suggerimenti possono essere ragionevolmente considerati utopistici nella misura in cui è improbabile che vengano messi in pratica da coloro che attualmente detengono il potere politico in Paesi come gli Stati Uniti – i politici e i ricchi uomini d’affari che esercitano una enorme influenza sui politici, pressandoli 24 ore su 24, finanziando le campagne elettorali, offrendo incarichi privilegiati e redditizi, e minacciando di far venire meno il loro supporto se non vengono favoriti i loro interessi. La maggior parte di queste persone, che per brevità potremmo chiamare la “classe dirigente”, sono votate, per convinzione, per interesse, o per entrambe le cose, al sistema capitalistico più o meno nella sua forma attuale. […] Nel clima politico che regna attualmente negli Stati Uniti e negli altri grandi Paesi capitalistici avanzati, pochi dei personaggi che occupano le stanze del potere sembrano intenzionati a promuovere il livello di intervento governativo nell’economia che sarebbe necessario per creare un contesto nel quale vivere in modo semplice, ma non in povertà, possa essere un’opportunità aperta a tutti. La vocazione ideologica ad anteporre la “saggezza” delle leggi del mercato all’intervento del governo ha radici profonde: l’interesse personale quale percepito dai benestanti, che non si vedono tra i beneficiari di quell’intervento, è molto forte.
Ma è interessante riconoscere che gli ostacoli appena descritti sono semplicemente politici. In via teorica, non esiste nessuna obiezione categorica né all’idea che il governo potrebbe finanziare occupazioni alternative o la riqualificazione dei lavoratori disoccupati, né all’idea di una riduzione generale delle ore lavorative. Per quanto riguarda la prima di queste due opzioni, la maggior parte dei governi la sta già in qualche misura attuando. Per esempio, parte della risposta del governo degli Stati Uniti alla recessione del 2008 è stata quella di dare dei soldi ai singoli Stati perché li usassero per migliorare le infrastrutture e l’istruzione. E un esempio ancora più eclatante è ciò che fecero i governi allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Durante gli anni Trenta negli Stati Uniti e nel Regno Unito c’erano alti livelli di disoccupazione e le persone senza lavoro vivevano in condizioni di grave deprivazione materiale. Quando arrivò la guerra, i governi si adoperarono immediatamente per far sì che venisse sfruttata appieno la forza lavoro disponibile: le fabbriche vennero riconvertite, i lavoratori riqualificati e in brevissimo tempo ci fu lavoro per tutti. […] Ma qui la questione non è che la soluzione ai problemi economici come la disoccupazione sia facile da mettere in atto; la questione è che il problema non si annida in qualche caratteristica intrinseca delle economie moderne o in qualche formula matematica scoperta da brillanti economisti che mette i bastoni tra le ruote al raggiungimento della piena occupazione, così come la legge di gravità ci impedisce di saltare sopra le nostre case.
Non c’è nessuna penuria di lavori utili. Ci sono infrastrutture da riparare; ci sono scuole e ospedali che hanno bisogno di essere rimodernati; parchi pubblici, grandi e piccoli, che necessitano di interventi e di personale; il trasporto pubblico in molte zone è fortemente inadeguato; in teoria ci sono margini pressoché illimitati per la ricerca in campo medico, nel settore delle energie alternative e in altri ambiti scientifici. E ci sono un sacco di persone che vogliono lavorare. […]
Il finanziamento del lavoro e dei percorsi di riqualificazione da parte del governo è una delle misure che aiuterebbero a controbilanciare la perdita di posti di lavoro dovuta alla riduzione generale della domanda, nel caso la filosofia della vita semplice dovesse fare più adepti. L’altra misura suggerita è quella di architettare una riduzione dell’orario di lavoro degli occupati a tempo pieno. In questo caso l’idea di fondo è elementare. Dieci persone che lavorano quaranta ore la settimana con tre settimane di ferie l’anno, fanno un totale annuo di 19.600 ore lavorative. Quindici persone che lavorano trenta ore la settimana con sei settimane di ferie l’anno, fanno 20.700 ore lavorative. Il secondo scenario ha molti ovvi vantaggi. Le cinque persone in più che lavorano, anziché essere disoccupate, pagheranno le tasse invece di percepire sussidi di disoccupazione. Una settimana lavorativa più corta e ferie più lunghe faranno sì che la forza lavoro si senta meno stanca, sia più produttiva quando è al lavoro e che presumibilmente in generale sia più felice e più in salute, dal momento che avrà una vita meno stressante. Le persone che hanno figli potranno passare più tempo con loro, una situazione che a sua volta ha molte ricadute positive, sia sulle famiglie che sulla società nel suo insieme.
Ci sono due ovvi problemi nel cercare di ridurre la settimana lavorativa: a) così facendo s’innalza il costo del lavoro per la maggior parte dei datori; b) molti lavoratori hanno bisogno, o vogliono, guadagnare quanti più soldi possibile, ragione per la quale tanta gente fa gli straordinari quando si presenta l’occasione. Ma queste obiezioni non sono dirimenti. Pensare che lo siano equivale, ancora una volta, a pensare alla proposta avulsa da altri cambiamenti che potrebbero e dovrebbero accompagnarla […]. Un importante ostacolo al compromesso ideale – più persone che beneficiano di un impiego e di una remunerazione sufficienti, senza essere oberate di lavoro e senza negare agli altri la possibilità di lavorare a loro volta – è il costo che i datori di lavoro devono sostenere per i benefit, quali l’assicurazione sanitaria e i contributi pensionistici. Ma il sistema che collega quei benefit al posto di lavoro si è affermato per via di circostanze storiche contingenti. Non c’è niente di obbligato, efficiente o desiderabile in questo schema. Un sistema sanitario nazionale nel quale ognuno riceva gratuitamente o con poca spesa tutte le cure mediche di cui ha bisogno, attingendo dalle tasse, è una via assolutamente percorribile. Così pure un sistema di sicurezza sociale che garantisca una pensione adeguata una volta raggiunta l’età pensionabile. La fattibilità di queste soluzioni è dimostrata dal fatto che qualcosa del genere già esiste e funziona in molti Paesi ricchi, quali Australia, Danimarca, Olanda e Canada […].
Un sistema sanitario universale e pensioni statali dignitose per tutti, coperti dagli introiti delle tasse, permettono ai datori di lavoro di assumere più persone con orario ridotto. Potrebbe anche far parte di un pacchetto più allargato che renda più facile per le persone vivere comodamente con meno, riducendo così l’impellenza di lavorare più ore. Altre misure che avrebbero un effetto simile includono il miglioramento dell’istruzione pubblica (in modo che i genitori non avvertano l’esigenza di mandare i loro figli alle scuole private o di spostarli in scuole site in zone benestanti), un sistema efficiente di trasporti pubblici e un piano di edilizia pubblica dignitosa e accessibile che, unito a una regolamentazione del costo degli affitti privati, potrebbe aiutare ad abbassare i costi abitativi in generale.
Anche se tutte queste misure fossero disponibili, non c’è dubbio che alcune persone avvertirebbero ugualmente la spinta a fare un sacco di soldi e a adottare uno stile di vita più dispendioso. Ma l’obiettivo delle politiche menzionate non è quello di eliminare lo sperpero volontario, bensì quello di rendere praticabile – se non addirittura desiderabile – la riduzione delle ore lavorative per molte più persone. Questo ci permetterebbe di fare un passo avanti rispetto alla situazione attuale, nella quale milioni di persone sono disoccupate o sottoccupate, mentre molte altre si sentono oberate di lavoro, e di andare nella direzione di una distribuzione più ragionevole ed efficiente del lavoro. E questo, a sua volta, significherebbe che un gran numero di persone potrebbe scegliere di ridurre il livello dei consumi, senza che questo estrometta milioni di individui dal mondo del lavoro e li faccia sprofondare nella povertà.
Ovviamente questi suggerimenti comportano un livello di intervento governativo nell’economia più alto di quello che molte persone, in particolare sul versante politico, considerano desiderabile. Il loro mantra ossessivo è che il libero mercato è il meccanismo più efficiente per motivare la fornitura e regolare la distribuzione di quasi tutto, che si tratti di ricchezza, lavoro, merci, servizi, settore immobiliare, sistema sanitario, energia o istruzione. Eppure il sistema in vigore negli Stati Uniti e in altri Paesi capitalistici non è poi così mirabilmente efficiente. Ripeto, c’è tanto lavoro da fare e ci sono milioni di persone che vorrebbero farlo piuttosto che rimanere disoccupate; c’è in giro una quantità di ricchezza senza precedenti, eppure la maggior parte finisce nelle tasche di una piccola minoranza. Lo 0,01% degli americani più ricchi possiede oltre il 10% della ricchezza degli Stati Unti, lo 0,1% ne possiede oltre il 20% e l’1% ne detiene oltre il 60%.
Gli economisti scettici sui vantaggi potenziali di un intervento più incisivo del governo sull’economia nella direzione suggerita in questa sede amano portare ad esempio paesi dove, a loro dire, esperimenti socialisti di quel tipo sono stati tentati e si sono rivelati un fallimento. Per esempio, fanno notare i problemi che si dice siano stati causati dall’introduzione della settimana lavorativa di trentacinque ore in Francia. Ma se c’è una cosa estremamente ovvia in quelle obiezioni è la loro motivazione ideologica. Penserete che quando la Francia cercò di mettere in pratica quell’idea nel 2000, la reazione più ragionevole avrebbe dovuto essere più o meno questa: “Ecco un esperimento interessante; speriamo che funzioni perché, se così fosse, sarebbe una buona notizia per tutti noi! Meno lavoro, più svago, meno stress, più tempo passato con la famiglia e gli amici”. Invece la conclusione inevitabile è che i paladini del libero mercato, come l’Economist, hanno condannato quell’idea fin dal suo nascere e l’hanno regolarmente bollata come un fallimento. Tuttavia, la verità è che gli “esperti” sono in disaccordo sul livello di successo di quell’esperimento. Alcuni sostengono che le trentacinque ore settimanali sono una leggenda. Molti lavoratori francesi, specialmente i colletti bianchi, eccedono regolarmente le trentacinque ore; le ore oltre quella soglia contano semplicemente come straordinari. La banca mondiale ha pubblicato un report nel quale si dice che accorciare la settimana lavorativa ha dimostrato di avere qualche effetto misurabile sull’efficienza di un’economia. E la forza lavoro francese rimane una delle più produttive in Europa, visto che si è piazzata al settimo posto tra i paesi membri dell’Ocse nel 2011. Eppure come osservò Jean Baker, co-direttore del Center for Economic and Policy Research: “Gli economisti guardano alla Francia come un Paese che ha 35 ore lavorative settimanali, un governo che incide per più della metà del PIL e fornisce ai cittadini un’assistenza sanitaria e servizi per l’infanzia di prima qualità – e osano dire che questo non può funzionare. Sono semplicemente stizziti perché invece funziona”.
Tratto da Frugalità. Storie della vita semplice, di E. Westacott (LUISS University Press 2017).
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