Il Fiscal compact? Sarebbe bocciato all’esame di economia, sostiene Francesco Saraceno
17 gennaio 2018
Il fiscal compact e le altre regole che l’Unione economica e monetaria (Uem) si è data in materia fiscale sono all’altezza dei tempi? Conviene chiederselo, a maggior ragione alla vigilia di una fase di riforma della governance in cui – come è noto e come è stato analizzato anche su LUISS Open da Marcello Messori – si torna a discutere di una sorta di “blindatura” del Fiscal compact nei trattati europei. Ma cos’è una “buona” regola fiscale? In un articolo pionieristico, firmato nel 1998 dagli economisti George Kopits e Steven A. Symansky e pubblicato tra gli “Occasional Papers” del Fondo monetario internazionale, i due autori enumerano una lista di criteri volti a determinare la qualità delle regole fiscali. La lista verrà emendata più tardi da Willem H. Buiter per prendere in conto le specificità delle unioni monetarie. Nel loro insieme i criteri riprendono le considerazioni del cosiddetto “Consenso” degli anni 90 sull’efficacia della politica economica, che deve interferire il meno possibile con l’operare degli agenti economici (le regole devono essere chiare, trasparenti, semplici da applicare, neutre rispetto alle scelte strategiche del settore pubblico), o le considerazioni legate all’efficacia dell’azione pubblica (le regole devono essere coerenti con altre istituzioni, durevoli, flessibili e rispettare la diversità istituzionale dei paesi).
Kopits e Symanski riconoscono che nessuna regola può soddisfare tutti i criteri allo stesso tempo, e che quindi nel concepirle si deve arbitrare tra criteri talvolta contraddittori. Ci sono stati tentativi di valutazione delle regole fiscali europee secondo i criteri di Kopits e Symansky. In un primo tentativo di valutazione, Buti et al. (2003) concludono che l’architettura per la governance fiscale dell’Unione economica e monetaria (Uem) nel suo complesso può essere considerata una buona regola Secondo loro, i due inconvenienti fondamentali del Patto di stabilità sono la difficoltà di applicazione e il difetto di coerenza con altre istituzioni, difetti che è possibile minimizzare con modifiche marginali.
Le incoerenze del patto di stabilità e crescita
In un paper articolo scritto assieme a Jérôme Creel nel 2010, ho preso una posizione nettamente più critica, notando che il Patto non è coerente, poiché manca di incitazioni per i governi a trarre profitto dai periodi di ripresa economica per risanare il bilancio pubblico o per attuare riforme fiscali (in altre parole, il Patto sarebbe “solo bastone e niente carota”). Inoltre il Patto di Stabilità poggia sul concetto intrinsecamente arbitrario di “deficit strutturale”; questo ovviamente porta ad un difetto di chiarezza e di trasparenza della regola europea, due criteri importanti tra quelli enunciati da Kopits e Symansky.
Inoltre, la Commissione è dotata del potere di identificare “scostamenti significativi” degli obiettivi a medio termine che i Paesi dovrebbero raggiungere. Ora, la determinazione di quello che è significativo e di quello che non lo è, viene lasciata alla discrezione della Commissione. Si è così appreso, nella primavera 2015, che l’eccedente della bilancia corrente della Germania non era “eccessivo” pur essendo ben oltre la soglia fissata dalle norme europee nell’ambito della procedura sugli squilibri macroeconomici (il surplus di partite correnti tedesco è da anni superiore all’8%, mentre la soglia europea è il 6%).
Il Patto di Stabilità originario del 1997 conteneva qualche elemento di flessibilità, dato che il potere di sanzioni competeva al Consiglio, il quale decideva sulla base di considerazioni politiche. Ma, questa flessibilità, aumentata da una prima riforma del Patto nel 2005, andava a detrimento della capacità e di sanzione (la “certezza della pena”), e quindi della credibilità della regola. Con la crisi e il conseguente irrigidimento delle regole introdotto dal Fiscal compact, si è trovato un rimedio, e le sanzioni sono adesso automatiche, a meno che il Consiglio non le blocchi con una maggioranza qualificata. Ciò ha ovviamente ridotto la flessibilità, dimostrazione pratica degli arbitraggi già evocati e impliciti nei criteri di Kopits e Symansky.
Il trade off tra “flessibilità” e “arbitrarietà” dopo il 2015
Curiosamente, le difficoltà recenti dell’economia della zona euro, e le reazioni negative contro l’austerità, hanno rimesso in moto il pendolo e indotto la Commissione ad assumere un ruolo più attivo nel valutare caso per caso se le deviazioni dagli obiettivi fossero giustificate. Dal 2015 la Commissione tende ad accordare flessibilità a certi paesi, in contropartita di sforzi significativi (in materia di sforzo per le riforme, di investimenti pubblici, di gestione di emergenze come la crisi dei rifugiati, ecc.). Questo miglioramento rispetto al criterio della flessibilità avviene tuttavia al prezzo di una crescita dell’arbitrarietà, e di un’ulteriore diminuzione di chiarezza e di trasparenza.
Ma c’è di più. La crisi ha messo in evidenza problemi ben più sostanziali della governance fiscale europea. In primo luogo, essa non sembra aver garantito la sostenibilità delle finanze pubbliche dei paesi in crisi. Nel 2017, malgrado un lungo periodo di austerità (probabilmente a causa proprio dell’austerità) in tutti i paesi periferici, il rapporto tra debito e Pil è stato a malapena stabilizzato. La filosofia del Patto di Stabilità era di coordinare le politiche fiscali “partendo dal basso”, tramite l’adesione alle regole. La filosofia one-size-fits-all del Patto ha evidenziato la mancanza di coerenza del sistema: innanzi tutto, le politiche fiscali hanno finito per essere sincronizzate, piuttosto che coordinate. Tutti i paesi hanno applicato l’austerità, anche quelli che avevano la possibilità di praticare politiche espansive (tra questi, in particolare la Germania). Di conseguenza, dal 2010 la politica fiscale della zona euro, nel suo complesso, è stata complessivamente restrittiva, e quindi pro-ciclica (frenava l’economia quando questa avrebbe avuto bisogno di una spinta), o al massimo neutra, malgrado deviazioni della produzione dal potenziale negative e persistenti.
Il tampone d’emergenza della Banca Centrale Europea
Proprio a causa di questa politica fiscale complessivamente opaca e destabilizzante, la Banca Centrale Europea è dovuta intervenire, sia pure con una certa riluttanza, per minimizzare gli effetti negativi dell’austerità sulla stabilità della zona euro. La regola fiscale ha obbligato la Banca centrale a barcamenarsi per sostenere l’attività economica (peraltro in contraddizione con il proprio mandato) quando, a causa della trappola della liquidità, sarebbe stato molto più efficace utilizzare la leva fiscale. In secondo luogo, è vero che le regole rispettano in teoria il criterio di neutralità rispetto alle istituzioni proprie di ogni paese, dato che niente nel Patto di Stabilità (né nel fiscal compact) impone vincoli particolari riguardanti la dimensione del settore pubblico e la spesa sociale degli Stati. Ma la prassi è stata differente, soprattutto a partire dalla crisi. Per esempio, le domande dei creditori al momento delle trattative sul piano di salvataggio della Grecia, e più generalmente le dichiarazioni pubbliche della Bce e della Commissione riguardanti la politica macroeconomica, hanno insistito e insistono, con costanza, sulla necessità di ridurre la dimensione del settore pubblico, la spesa pensionistica e l’impatto della spesa sanitaria sulle finanze pubbliche, e così di seguito. Di conseguenza, l’attuazione della regola è in pratica una chiara applicazione del Nuovo Consenso.
Alla luce di queste considerazioni, è difficile condividere la conclusione di coloro secondo i quali la governance fiscale europea necessita solo di piccoli aggiustamenti. Gli anni 2000 e la crisi che è iniziata nel 2009 hanno chiaramente dimostrato che le nostre regole fiscali non rispettano quasi nessuno dei criteri stabiliti 20 anni fa da Kopits e Symansky.
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