Perché non bisogna sottovalutare la (poco appariscente) riforma del regolamento del Senato
29 gennaio 2018
Una volta venuto meno il “tappo” rappresentato dell’avere una riforma costituzionale del bicameralismo in itinere e una volta entrata in vigore una nuova legge elettorale, la legge n. 165 del 2017, che, essendo stata approvata con un consenso parlamentare piuttosto ampio e sollevando meno dubbi delle precedenti quanto alla sua conformità alla Costituzione, si presta a durare nel tempo, si è riavviato, non a caso, il processo di riforma dei regolamenti parlamentari. Anche se, curiosamente, questo processo è giunto a compimento, a ridosso dello scioglimento delle Camere, esclusivamente presso il Senato.
In questo ramo del Parlamento infatti, grazie ad un’accelerazione accuratamente gestita dal Presidente Grasso, d’intesa con i quattro principali gruppi (PD, Movimento 5 stelle, PDL e Lega), nelle settimane conclusive della legislatura, si è pervenuti nella seduta del 20 dicembre 2017 all’approvazione, a maggioranza assoluta, di un testo di “riforma organica del regolamento del Senato” proposto dalla Giunta per il regolamento (A.S., XVII legislatura, doc. II, n. 38, 14 novembre 2017), con alcuni emendamenti approvati dall’Assemblea (il testo è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, serie generale, n. 15 del 19 gennaio 2018). Alla Camera, invece, il relativo percorso, che pure aveva avuto modo di svilupparsi nella prima parte della legislatura, su iniziativa della Presidente Boldrini, non ha più ripreso vigore all’indomani del referendum costituzionale, nonostante le sollecitazioni della Presidente medesima, la quale si è poi pubblicamente rammaricata di un esito siffatto (tra l’altro, in un comunicato del 21 dicembre 2017, nel quale ha espresso il “rincrescimento […] per tutti coloro che hanno a cuore il buon funzionamento della democrazia parlamentare”).
Come cambiano le regole per formare i gruppi parlamentari
Il contenuto più significativo della riforma, tanto sul piano politico quanto su quello sistematico, risiede in una serie di innovazioni alla disciplina dei requisiti richiesti per la formazione dei gruppi parlamentari. Un profilo su cui invano si erano tentati interventi di riforma, nelle legislature precedenti, con la finalità di adeguare tale disciplina alle leggi elettorali maggioritarie e di eliminare gli incentivi attualmente esistenti alla mobilità dei parlamentari – individuali o in drappelli, a seguito di scissioni più o meno rilevanti in seno a partiti politici – da un gruppo all’altro, che hanno finito per allontanare il panorama dei gruppi parlamentari, specie nella seconda parte della legislatura, da quello presentatosi ai cittadini nel momento elettorale.
Per effetto del nuovo art. 14 del regolamento del Senato, per formare un gruppo non basta soddisfare esclusivamente requisiti numerici, ma altresì requisiti politico-elettorali. Più precisamente, perché un gruppo possa costituirsi non è più sufficiente – come è stato finora – che 10 senatori intendano farlo, ma il gruppo deve altresì “rappresentare un partito o movimento politico, anche risultante dall’aggregazione di più partiti o movimenti politici, che abbia presentato alle elezioni del Senato propri candidati con lo stesso contrassegno, conseguendo l’elezione di senatori”.
A completamento di questa revisione, in primo luogo, si aboliscono i gruppi “autorizzati” o “in deroga”: l’unico gruppo che può formarsi con un numero minore di 10 senatori è quello rappresentativo delle minoranze linguistiche, per il quale è sufficiente superare la soglia di 5 senatori “eletti nelle regioni speciali il cui statuto preveda la tutela di minoranze linguistiche”. In secondo luogo, si introduce il divieto di istituire nuovi gruppi in corso di legislatura, a meno che non risultino dall’unione di gruppi già costituiti o anche – secondo una previsione inserita in Assemblea – dalla rottura di coalizioni composte da partiti o movimenti politici che si erano presentati con il proprio simbolo alle elezioni. Si prevede, in terzo ed ultimo luogo, in caso di cambio di gruppo, la decadenza dalle cariche di presidenti e membri dell’ufficio di presidenza delle commissioni permanenti e da quelle di vicepresidente o segretario d’assemblea. Mediante un emendamento introdotto in Assemblea si precisa che queste misure, che hanno in senso lato un carattere sanzionatorio, non si applichino ove il cambio di gruppo sia avvenuto indipendentemente dalla volontà dell’interessato, e sia cioè derivato da una espulsione deliberata dal gruppo di provenienza o da “scioglimento o fusione con altri Gruppi parlamentari”.
Una serie di misure che finiscono senza dubbio per irrigidire il panorama politico-parlamentare, facendo sì che esso rispecchi in maniera più fedele possibile le risultanze delle elezioni, e, al contempo, eliminando gli incentivi alla frammentazione e alla mobilità fin qui esistenti.
Questo obiettivo viene perseguito, a mio avviso, senza violare il divieto di mandato imperativo di cui all’art. 67 Cost.: il singolo parlamentare che decida di abbandonare il gruppo corrispondente al contrassegno con cui si è presentato alle elezioni resta libero, infatti, di iscriversi ad altro gruppo o al gruppo misto (con un’innovazione di rilievo non marginale, i senatori a vita, ed esclusivamente loro, sono ora abilitati a non iscriversi a nessun gruppo). Semmai, problemi potrebbero derivare dal fatto che in tal modo diventa pressoché impossibile proiettare tempestivamente in parlamento eventuali scissioni interne ad un partito, posto che, in attesa delle nuove elezioni, gli scissionisti non potranno formare un nuovo gruppo, ma solo aggregarsi ad uno di quelli già esistenti. Ed è facile pronosticare un’esplosione del gruppo misto in corso di legislatura, in qualche misura già messa in conto anche dalla riforma in esame.
La neonata asimmetria tra Camera e Senato
Come si accennava, alla Camera non si è proceduto a nessun intervento di riforma del regolamento. L’asimmetria che così si viene a determinare tra i due rami del Parlamento, per un aspetto cruciale quale è il quadro delle formazioni politiche, assume un sapore paradossale perché l’intervento di riforma del regolamento del Senato approvato il 20 dicembre 2017 non si limita alle misure sui gruppi parlamentari, ma consta altresì di una serie di ulteriori innovazioni, una della cui rationes di fondo pare essere quella di avvicinare la disciplina del Senato a quella della Camera, con un’inversione perciò del già ricordato trend alla progressiva divaricazione delle regole procedurali tra i due rami del Parlamento.
Vanno in questa direzione, tra l’altro, la nuova disciplina sul computo degli astenuti, volta ad uniformarla a quella vigente alla Camera, in cui essi sono neutralizzati, ai fini del risultato della votazione; l’eliminazione delle due sedute giornaliere; l’adozione dei principi della disciplina della Camera per la sede redigente (con votazioni articolo per articolo e votazione finale da svolgersi in Assemblea); la riconduzione del lavoro pubblico alle materie di competenza della Commissione lavoro, anziché della (già oberata) Commissione affari costituzionali (analogamente a quel che accade alla Camera sin dal 1987); l’assimilazione della composizione della Commissione Politiche dell’Unione europea a quella delle altre commissioni permanenti, con l’eliminazione perciò dell’appartenenza ad un’ulteriore commissione permanente; l’abolizione del controllo da parte della Commissione affari costituzionali sulla sussistenza dei presupposti di necessità ed urgenza dei decreti-legge, sostituito da una questione pregiudiziale che un capogruppo o 10 senatori possono presentare in Assemblea; l’introduzione di una disciplina un minimo più dettagliata della questione di fiducia, volta tra l’altro a consentire un controllo del Presidente di Assemblea e della Commissione bilancio sul testo su cui questa viene posta, seppure al fine di determinare solo modifiche di tipo formale del testo in oggetto; l’avvicinamento della disciplina sulle richieste dello scrutinio segreto a quella vigente alla Camera (tra l’altro con la soppressione del riferimento alla tutela delle minoranze linguistiche, che aveva originato effetti perversi nell’iter della revisione costituzionale); l’adozione di modalità di verifica del numero legale meno defatiganti e più simili a quelle in vigore alla Camera; in caso di mancato seguito dei pareri della Commissione bilancio, l’obbligo – già previsto alla Camera – di votare gli emendamenti corrispondenti alle condizioni non recepite; e, infine, anche la previsione di un codice di condotta dei senatori, da adottarsi da parte del Consiglio di Presidenza (analogo perciò a quello approvato dalla Giunta per il regolamento della Camera il 12 aprile 2016, pur in assenza di apposita previsione regolamentare).
In direzione convergente, quella cioè di un funzionamento meglio coordinato tra i due rami del Parlamento, vanno anche le previsioni di ulteriori procedure “intercamerali”: in particolare, quelle che consentono riunioni congiunte delle omologhe commissioni di Camera e Senato per procedere a informative e comunicazioni del Governo e altresì ad audizioni (fin qui vietate in via generale e ora invece divenute obbligatorie) dei candidati proposti dal Governo, prima di procedere al parere parlamentare sulle nomine in questione.
Le perplessità che rimangono
Qualche perplessità in più suscita, invece, l’avvicinamento delle procedure europee del Senato a quelle della Camera, pure previsto dalla riforma regolamentare approvata il 20 dicembre 2017. Nel codificare nel regolamento – finalmente, verrebbe da dire – le procedure europee che erano state delineate, contestualmente all’entrata in vigore del trattato di Lisbona, esclusivamente con una lettera del Presidente del Senato, vi si introducono alcune novità. Tra queste, quella di riservare sostanzialmente alla Commissione Politiche dell’Unione europea “la verifica del rispetto dei princìpi di sussidiarietà e di proporzionalità”. Nel testo della Giunta per il regolamento questa competenza, similmente a ciò che accade alla Camera, era configurata come esclusiva. Per effetto di alcuni emendamenti approvati dall’Assemblea, tale esclusività è stata attenuata, essendosi stabilito che la verifica della Commissione Politiche dell’Unione europea possa avvenire pure sulla base di un apposito invito della commissione competente per materia, qualora quest’ultima “abbia riscontrato la possibile violazione del principio di sussidiarietà”.
In questo caso, invero, le soluzioni procedurali originariamente adottate dal Senato, che prevedevano un coinvolgimento pieno e in parallelo in tale procedura anche delle altre commissioni permanenti, erano parse più convincenti di quelle della Camera: sia perché più coerenti con l’approccio fin qui prevalso in sede europea, che ha valorizzato la natura politica del controllo di sussidiarietà e la sua connessione con il c.d. “dialogo politico”; sia perché idonee a consentire l’adozione di un maggior numero di pareri motivati, anche grazie all’iniziativa di singole commissioni di merito. Ma forse è stato proprio quest’ultimo il punto critico, per cui si è preferito concentrare in linea di massima tale controllo in capo alla Commissione Politiche dell’Unione europea, in modo da favorire il formarsi di orientamenti interpretativi più omogenei e, al contempo, rendere l’esercizio dei poteri europei del Senato più coerente con le posizioni eventualmente espresse dall’altro ramo del Parlamento (e, soprattutto, dal Governo in sede europea).
La valorizzazione del lavoro delle Commissioni parlamentari
A queste misure si aggiungono una serie di interventi riguardanti altri istituti del diritto parlamentare, ispirati per larga parte alla volontà di valorizzare il lavoro delle commissioni, nella consapevolezza che è dalla loro capacità decisionale che derivano la forza di un Parlamento e la sua capacità di incidere sul sistema istituzionale e sulla società.
Di notevole rilievo appare, almeno sul piano simbolico, la novità che più direttamente riguarda il procedimento legislativo, ossia l’assegnazione, di regola, dei progetti di legge alle commissioni in sede deliberante o in sede redigente. Nel caso in cui venga poi esercitato il potere di rimessione del progetto in sede referente (che l’art. 72, terzo comma, Cost. attribuisce al Governo, a un quinto dei membri della Commissione o a un decimo dei componenti dell’Assemblea), si stabilisce che spetti alla Conferenza dei capigruppo fissare il termine entro il quale la Commissione in sede referente è tenuta a concludere i suoi lavori. L’intenzione è quella di far svolgere alle commissioni larga parte del lavoro legislativo – al di fuori ovviamente dei casi di riserva d’Assemblea ex art. 72, quarto comma, Cost. –, mantenendo però in mano alla Conferenza dei capigruppo il controllo dei tempi e delle priorità, anche per evitare utilizzi ostruzionistici del potere di rimessione. Si tratterà di vedere se il sistema politico, con i suoi complessi equilibri, consentirà che questa opportunità istituzionale sia adeguatamente sfruttata.
In coerenza con questa opzione relativamente al procedimento legislativo, il regolamento stabilisce di riservare all’attività delle commissioni uno spazio assai ampio: due settimane dei lavori parlamentari, non coincidenti con i lavori dell’Assemblea, sono infatti destinati alle commissioni, permanenti, speciali e bicamerali. L’auspicio è che questa previsione, collocata nell’art. 53, comma 2, del regolamento, possa avere un destino migliore di quella che va a sostituire, rimasta sostanzialmente inattuata, secondo cui “di norma” quattro settimane ogni due mesi avrebbero dovuto essere riservate alle sedute delle commissioni, mentre tre sarebbero state dedicate all’Assemblea e una all’attività dei gruppi e dei singoli senatori. Oggi il “di norma” scompare, ma non è scontato che questo basti a dare valore effettivamente prescrittivo a questa disposizione.
Il rafforzamento del ruolo dell’opposizione
In alcuni casi, vengono introdotti una serie di elementi tipici di uno statuto dell’opposizione, ad integrazione di quelli – invero piuttosto deboli – già previsti. Tra questi, spicca il diritto per un terzo dei senatori di chiedere la convocazione della Giunta per il regolamento su questioni di interpretazione regolamentare, così obbligando il Presidente di Assemblea a non decidere da solo: è vero che il Presidente non è tenuto a conformarsi all’orientamento espresso dalla Giunta – sempre che questa sia in effetti in grado di esprimerlo – ma certo se intenderà discostarsene sarà tenuto a fornire buone ragioni e ad assumersi in pieno la responsabilità dell’interpretazione così adottata. Si noti che questo potenziamento del ruolo della Giunta per il regolamento avviene, non a caso, contestualmente ad un mutamento delle regole sulla sua composizione, volto a garantire il rispetto del principio di proporzionalità tra i gruppi, e dunque ad evitare che le opposizioni possano avere la maggioranza in Giunta per il regolamento (come è accaduto nella seconda parte della XVII legislatura).
Vanno segnalati, nella medesima chiave, anche la spettanza della presidenza della Giunta delle elezioni e delle immunità ad un senatore appartenente a un gruppo di opposizione. O ancora la revisione della disciplina volta a riservare una quota di tempo alle iniziative sottoscritte da almeno un terzo dei senatori, in sostituzione di quella introdotta nel 1988, che aveva riscontrato numerosi problemi applicativi.
I tempi di parola che diminuiscono
Qualche ulteriore intervento, pur senza pretese di completezza, merita di essere richiamato: una generalizzata diminuzione dei tempi di parola, con un incremento delle discussioni limitate ad un rappresentante per gruppo; una diminuzione delle votazioni per alzata di mano e di quelle a scrutinio elettronico senza registrazione dei nomi (con cui le prime di regola vengono sostituite) e un correlativo incremento di quelle a scrutinio nominale elettronico, previste in particolare per le questioni incidentali (pregiudiziale e sospensiva) e per le proposte di coordinamento formale; la possibilità di adottare forme più intense (attraverso impianti audiovisivi) di pubblicità delle sedute in commissione, anche al di fuori delle sedi redigente e deliberante, su richiesta (a maggioranza) della stessa Commissione e previa autorizzazione del Presidente del Senato; infine, un adeguamento terminologico ad alcune innovazioni legislative intervenute, ad esempio quelle che hanno comportato lo sdoppiamento della “legge comunitaria” annuale o quelle che hanno invece determinato la scomparsa della legge finanziaria (poi legge di stabilità), riconducendone i contenuti all’interno della legge di bilancio.
Infine, per la loro connessione con la revisione costituzionale respinta dal referendum, vanno richiamate, in primo luogo, la soppressione delle norme regolamentari che disciplinavano i rapporti con il CNEL; in secondo luogo, la previsione di un regime a tempi garantiti per l’esame delle proposte di legge di iniziativa popolare; in terzo ed ultimo luogo, la nuova disciplina degli effetti della dichiarazione d’urgenza, che costruisce una sorta di corsia preferenziale, con iscrizione a termine certo nel programma dei lavori dell’Aula, per i disegni di legge sui quali, su iniziativa di almeno un decimo dei senatori, sia stata deliberata l’urgenza con voto dell’Assemblea.
L’architettura dei regolamenti del 1971
Considerato il complesso delle innovazioni approvate, si comprende come mai, con qualche enfasi, la Giunta per il regolamento abbia definito questo intervento – sulla scorta del titolo a suo tempo dato ad una proposta formulata, sul finire della scorsa legislatura, dai senatori Quagliariello e Zanda a nome dei gruppi Pdl e Pd (A.S., XVI legislatura, doc. II, n. 29, 2 febbraio 2012) – come “riforma organica del regolamento del Senato”.
Certo, per parlare di una vera e propria riforma organica – che abbia la capacità di ripensare in profondità l’architettura dei regolamenti del 1971 – ancora ce ne vuole, qui essendo prevalsa, secondo quanto dichiarato dagli stessi autori, la logica di far procedere solo le innovazioni su cui, in seno all’apposito comitato ristretto costituito in seno alla Giunta per il regolamento, si è registrato un consenso unanime (in questo senso, la relazione del sen. Calderoli, in A.S., XVII legislatura, doc. II, n. 38, cit.).
Tuttavia, il passo compiuto è tutt’altro che insignificante (ancorché limitato a un solo ramo del Parlamento, per ora) e l’intento fortemente innovatore mi pare simboleggiato dall’ultimo articolo della riforma, con il quale si introduce una disposizione finale, secondo cui “A decorrere dall’entrata in vigore delle presenti modificazioni al Regolamento, cessa ogni effetto prodotto dai pareri interpretativi della Giunta per il Regolamento e dalle circolari riferiti agli articoli oggetto della presente riforma”. Una disposizione nata forse con uno scopo tutto contingente e probabilmente formulata in modo troppo draconiano – non potendosi di per sé escludere che alcuni pareri siano ancora utilizzabili, ad esempio ove riferiti a commi non interessati o interessati solo assai parzialmente dalla riforma – ma che, appunto, dà la misura della volontà di introdurre una forte discontinuità nelle regole parlamentari a partire dalla prossima legislatura.
Un impegno (fin da subito) per la nuova legislatura
Quello che sorprende è che nulla di tutto ciò sia accaduto nell’altro ramo del Parlamento, dove pure, come si è accennato, si era avviato un percorso di riforma regolamentare. Alla Camera, perciò, continua ad essere vigente la disciplina in base alla quale 20 deputati possono costituire un gruppo, e 10 deputati una componente politica del gruppo misto, a prescindere da ogni collegamento con le elezioni; così come permangono le previsioni relative ai gruppi autorizzati (sulla base di condizioni che fanno ancora riferimento alla legge elettorale proporzionale vigente fino al 1993) e alle componenti politiche autorizzate (sulla base di un collegamento anche assai labile con un partito o movimento esistente al momento delle elezioni).
Si tratta di un’asimmetria particolarmente vistosa, che appare altresì disattendere il senso del fondamentale “monito” con cui si chiude la sentenza n. 35 del 2017 della Corte costituzionale, che pure il legislatore, nell’approvare la nuova legge elettorale, ha prontamente attuato. E’ infatti evidente, nell’assetto bicamerale paritario confermato dal referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, che il “corretto funzionamento della forma di governo parlamentare” e la “formazione di maggioranze parlamentari omogenee” rischiano di essere compromessi non solo da sistemi elettorali divergenti – ipotesi che per fortuna sembra essere ora scongiurata – ma anche da regole parlamentari non armonizzate, per effetto delle quali la dinamica politica si delinei in modo (artificiosamente) diverso tra Camera e Senato.
Sulla base di queste considerazioni ci si può forse spingere ad auspicare che tra i primissimi atti della nuova Camera, formatasi sulla base delle elezioni del 4 marzo 2018, vi sia quello di negare ogni autorizzazione a gruppi in deroga (o a componenti politiche del gruppo misto al di sotto dei 10 deputati); e, al tempo stesso, di predisporre quanto prima un mini-intervento di riforma regolamentare volto a richiedere, per i gruppi che si dovessero formare in corso di legislatura, la sussistenza di un requisito politico-elettorale analogo a quello necessario nell’altro ramo del Parlamento.
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