La notizia del declino degli Stati Uniti è fortemente esagerata
12 febbraio 2018
Paul Kennedy non è più citato come un tempo. Eppure trent’anni fa il suo “Ascesa e declino delle grandi potenze” rimase per mesi in cima alle classifiche negli Stati Uniti, trasformandosi in un vero e proprio caso editoriale. Come sia stato possibile che un ponderoso saggio di taglio accademico con migliaia di note e riferimenti bibliografici sia rimasto in cima alle classifiche dei libri più venduti per mesi è presto detto: aveva toccato un nervo scoperto.
Kennedy, dopo aver analizzato l’ascesa e il declino dei grandi imperi del passato giunge a questa conclusione: gli imperi crollano, paradossalmente, a causa del loro stesso successo in termini di espansione e conquiste territoriali. Troppi confini da sorvegliare, troppi nemici da tenere a bada, il che significa una macchina militare sempre più grande e costosa che alla fine con la sua stessa esistenza schiaccia la macchina economica che la sostiene.
Nelle ultime venticinque pagine del suo libro, Kennedy volge lo sguardo al futuro dell’America e diagnostica: “Gli Stati Uniti corrono ora il rischio, tanto familiare agli storici dell’ascesa e della caduta delle grandi potenze del passato, di quella che si potrebbe approssimativamente chiamare ‘eccessiva estensione imperiale’: vale a dire che i governanti di Washington devono affrontare lo spiacevole e assodato fatto che il numero degli interessi e impegni degli Stati Uniti va oggi ben oltre le effettive possibilità che il paese ha di proteggerli e mantenerli”.
In sintesi, la scienza storica diagnosticava – secondo Kennedy – l’inevitabile declino americano: era “assodato” dunque che gli Stati Uniti avevamo imboccato la parte discendente della loro parabola, come tutte le altre grandi potenze del passato.
Eccolo il nervo scoperto dell’opinione pubblica americana che Kennedy tocca: la fine del mito dell’eccezionalità americana decretata dall’inevitabile declino.
Le conseguenze (a volte) positive di una sindrome
“Ascesa e declino” catalizza le ansie collettive e dà avvio ad una delle tante fasi di sindrome da declino imminente che quasi ciclicamente si manifestano nella storia americana. Anzi si potrebbe addirittura dire che è proprio questa capacità di entrare collettivamente in crisi che poi dà vita ad iniziative politiche che gettano le basi per la successiva rinascita.
Fu la sindrome da declino imminente provocata dal lancio dello Sputnik nel 1957 che portò alla nascita dell’Advanced Research Projects Agency che nel 1972 prese il nome di DARPA: uno dei cuori pulsanti nell’innovazione tecnologica del Paese, che tra l’altro ha dato vita ad ARPANET, la madre di Internet; fu quello shock che diede vita alla NASA e che, soprattutto, portò al varo del National Defense Education Act. Se la grande forza dell’economia americana è quella di produrre innovazione, lo si deve anche allo Sputnik.
Con il senno di poi è possibile dire che nelle ansie collettive della fine degli anni ’80 (come in quelle attuali) c’era anche la percezione che un mondo stava cambiano: deindustrializzazione, economica dei servizi, Internet e delocalizzazioni oltreoceano. Stava cambiando il modello economico, le persone lo percepivano. Dopo sarebbero venuti i ruggenti anni ’90 ma nell’87 questo nessuno lo sapeva.
Dunque che gli Stati Uniti entrino ciclicamente in crisi, ci sta. Anzi si potrebbe quasi dire che è all’origine della loro forza. Che i mutamenti profondi producano ansie che distorcono il giudizio di chi quei mutamenti li subisce, ci sta. È chiaro infatti che, per dirla con Schumpeter, i cambiamenti destinati a produrre progressi nel lungo periodo sono spesso causa di angosce nel breve termine.
Ciò che oggi risulta incomprensibile è il fatto che una parte dell’opinione pubblica mondiale sia convinta che il XXI secolo possa essere dominato da Russia e Cina che sopravanzano una America inevitabilmente in declino.
La creatività come risorsa
La cosa è incomprensibile per una serie di ragioni. La fonte della ricchezza economica di un paese e della sua potenza militare è la capacità dei propri cittadini di produrre innovazione e creatività. In questo senso ha del tutto ragione Julian Simon quando nel suo “The Ultimate Resource” sostiene che la più importante risorsa di un paese sono le menti creative dei propri cittadini.
Il che significa che ad avere la meglio saranno quei paesi che: 1) hanno creato un assetto istituzionale tale da garantire la più ampia libertà possibile al più ampio numero possibile di cittadini di esprimere sé stessi (Stato di diritto); 2) hanno dato vita a istituzioni capaci di coltivare al meglio il più ampio numero possibile di menti (Stato sociale); hanno dato vita a istituzioni in grado di promuovere innovazione, creatività e ricerca scientifica.
Ad oggi i paesi che si solo rivelati più efficaci nel tutelare la libertà e nel promuovere il progresso sociale sono le liberal democrazie basate su libero mercato e la libera impresa.
Dunque esiste un nesso tra democrazia e mercato e questo nesso è inscindibile: senza le libertà tutelate dalle liberal-democrazie non vi è né innovazione né creatività e senza di esse non vi è sviluppo economico.
Il che poi significa che i paesi emergenti che hanno imboccato la via della modernizzazione economica e tecnologica possono sperare di vedere realizzati i propri sogni di prosperità futura solo se danno avvio anche ad una fase di modernizzazione politica.
Non a caso i paesi che non sono incappati nella famigerata trappola del reddito medio (fenomeno economico, con cause politiche) come Taiwan e Corea del Sud sono quelli che hanno completato la transizione impiantando al proprio interno le istituzioni liberal-democratiche e le hanno fatte funzionare. In sintesi, alla modernizzazione economica e tecnologica deve seguire come un’ombra la modernizzazione politica ed istituzionale. Se ciò non accade, la macchina economica si inceppa.
Russia e Cina non hanno un sistema istituzionale liberal-democratico, né possono essere considerati paesi ad economia di mercato. Anzi, insieme alla Turchia di Erdogan hanno invertito la rotta ed hanno iniziato a coltivare sogni neo zaristi a Mosca, neo imperiali a Pechino e neo ottomani ad Ankara.
È forse un caso che non una delle grandi innovazioni che stanno ridisegnando il mondo sia nata in Cina o Russia? Che non una moda, una canzone, un film o una serie televisiva (soft power) di impatto globale siano stati creati in Russia o in Cina?
Il dato di fatto è che questi paesi non producono innovazione e creatività e, data la regressione politica in atto, andrà sempre peggio. Così più il potere del Partito comunista si rafforza a Pechino minore sarà la sfera di autonomia e libertà di cui il mercato e la società civile possono godere, minore sarà la vitalità economica dell’intero paese. Stesso discorso per la Russia.
Russia, Cina e l’ideal-tipo popperiano della “società chiusa”
C’è un ultimo punto da mettere in evidenza, Russia e Cina, per usare la terminologia di Robert Cooper, sono due stati westfaliani, due monadi chiuse al mondo con il feticcio del territorio, il culto dei confini e una fede ferrea nel principio di non ingerenza negli affari interni: cuius regio, eius religio.
Questo è il motivo principale per il quale non sono riusciti a costruire un sistema strutturato di alleanze tra pari e neppure, nonostante qualche timido tentativo, sono riusciti a creare un sistema istituzionale per tentare di strutturare un diverso ordine internazionale.
In conclusione, anche se qualche altra variabile andrebbe inserita, si può dire che la struttura istituzionale degli Stati Uniti, che per sintesi si può dire simile all’ideal-tipo popperiano della società aperta, crea le condizioni per la produzione di quella innovazione e di quella creatività che sono l’unico vero motore della crescita economica. Al contrario, la struttura istituzionale di Russia e Cina, può vicina all’ideal-tipo popperiano della società chiusa, crea condizioni sfavorevoli alla produzione di innovazione e creatività. Questo assetto istituzionale, inoltre, impedisce loro di creare, insieme a paesi alleati, un ordine internazionale strutturato ed istituzionalizzato che possa scalzare quello a matrice liberal-democratica costruito dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale. La più grande minaccia alla tenuta di quest’ordine può solo venire dall’interno: solo se le strutture istituzionali liberali dovessero crollare e il centro del sistema dovesse chiudersi su sé stesso il sistema internazionale post-bellico potrebbe collassare in una serie di blocchi chiusi ed in competizione tra loro.
Se il discorso fatto sin qui regge, allora non solo si può dire che il XXI secolo continuerà ad essere un secolo americano o euro-atlantico, e che non vi è alcuna alternativa valida alla liberal-democrazia in campo politico, e al libero mercato e alla libera impresa in campo economico. Ma significa anche che al momento non vi è alcuna alternativa percorribile al liberalismo, e che quindi il povero Fukuyama aveva la ragione: la storia è finita per davvero, per ora.
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