Disinformazione e incompetenza. Ecco perché ci troviamo di fronte ad un popolo di ‘spiegatori’
15 febbraio 2018
Tutti noi li abbiamo incontrati. Sono nostri colleghi, nostri amici, membri della nostra famiglia. Sono giovani e vecchi, ricchi e poveri, alcuni con un’istruzione, altri armati solo di un computer portatile o della tessera di una biblioteca. Ma tutti hanno una cosa in comune: sono persone mediocri che credono di essere dei pozzi di scienza. Convinti di essere più informati degli esperti, di avere conoscenze più ampie dei professori e maggiore acume rispetto alle masse credulone, sono gli “spiegatori”, sempre felicissimi di illuminare noi e gli altri su qualsiasi argomento, dalla storia dell’imperialismo ai pericoli dei vaccini.
Accettiamo le persone di questo tipo e ci rassegniamo alla loro presenza, se non altro perché sappiamo che in fondo sono animate da buone intenzioni. Proviamo anche un certo affetto nei loro confronti. Una sitcom televisiva degli anni Ottanta, Cin cin, per esempio, ha immortalato il personaggio del tuttologo Cliff Clavin, postino di Boston e assiduo frequentatore di bar. Cliff, come le sue controparti della vita reale, iniziava ogni frase dicendo “alcuni studi hanno dimostrato che…” oppure “è risaputo che…”. Gli spettatori amavano Cliff perché tutti conoscevano qualcuno come lui: lo zio stravagante in una cena durante le feste, il giovane studente tornato a casa dopo il primo cruciale anno di college.
Potevamo trovare addirittura tenere queste persone, perché erano bizzarre eccezioni in un Paese che rispettava i pareri degli esperti e si affidava a essi. Ma negli ultimi decenni qualcosa è cambiato. Lo spazio pubblico è sempre più dominato da un variegato assortimento di individui poco informati, molti dei quali sono autodidatti sprezzanti dell’educazione formale che tendono a minimizzare il valore dell’esperienza. “Se per essere presidente è necessario avere esperienza,” ha dichiarato il disegnatore e scrittore Scott Adams durante le elezioni del 2016 “ditemi un argomento politico che non riuscirei a padroneggiare in un’ora sotto la tutela dei migliori esperti”, come se una discussione con un esperto equivalesse a copiare informazioni dal disco di un computer a un altro. Si va affermando una specie di legge di Gresham intellettuale: laddove in passato la regola era “la moneta cattiva scaccia quella buona”, ora viviamo in un’epoca in cui la disinformazione scaccia il sapere.
E questo non è affatto un buon segno. Una società moderna non può funzionare senza una divisione sociale del lavoro e senza fare affida- mento su esperti, professionisti e intellettuali (per il momento utilizzerò queste tre parole in modo intercambiabile). Nessuno è esperto di tutto. A prescindere da quali siano le nostre aspirazioni, siamo vincolati dalla realtà del tempo e dai limiti innegabili del nostro talento. Prosperiamo perché ci specializziamo e perché sviluppiamo meccanismi formali e informali che ci permettono di fidarci reciprocamente per le rispettive specializzazioni.
All’inizio degli anni Settanta, lo scrittore di fantascienza Robert Heinlein coniò la massima, da allora molto citata, secondo cui “la specializzazione va bene per gli insetti”. Gli esseri umani veramente capaci, scriveva, dovrebbero saper fare quasi tutto, da cambiare un pannolino a comandare una nave da guerra. È un nobile sentimento che celebra l’adattabilità e la resilienza umana, ma è sbagliato. Anche se c’è stato un tempo in cui ogni colono abbatteva gli alberi necessari a costruirsi da solo la propria casa, questa pratica non soltanto era inefficiente, ma produceva alloggi rudimentali.
C’è un motivo se non facciamo più le cose a quel modo. Quando costruiamo grattacieli, non ci aspettiamo che il metallurgista in grado di realizzare una trave, l’architetto che progetta l’edificio e il vetraio che installa le finestre siano la stessa persona. È per questo che possiamo goderci la vista della città dal centesimo piano: ogni esperto, pur possedendo conoscenze che in parte si sovrappongono, rispetta le capacità professionali di molti altri specialisti e si concentra su ciò che sa fare meglio. La fiducia e la collaborazione tra gli esperti portano a un risultato finale superiore a quello di qualsiasi prodotto che avrebbero potuto realizzare da soli.
La verità è che non possiamo funzionare se non ammettiamo i limiti del nostro sapere e non ci fidiamo delle competenze altrui. A volte ci opponiamo a questa conclusione perché sconvolge il nostro senso di indipendenza e di autonomia. Vogliamo credere di essere in grado di prendere tutte le decisioni e ci irritiamo se qualcuno ci corregge, ci dice che stiamo sbagliando o ci dà spiegazioni su argomenti che non capiamo. Questa naturale reazione umana in un individuo è pericolosa quando diventa una caratteristica condivisa da intere società.
Il testo proposto è tratto dal libro “La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia” (LUISS University Press), in libreria dal 15 febbraio 2018.
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