Celeste impero e America first, una sfida senza vincitori
8 marzo 2018
La globalizzazione ha rappresentato la ricomposizione dei sistemi economici – socialismo e capitalismo – attraverso la teoria e la prassi del mercato. Essa, però, è stata interpretata e attuata con modalità opposte da Cina e Stati Uniti: la prima l’ha internalizzata, secondo i principi della dottrina marxista; gli Stati Uniti l’hanno esternalizzata, coerentemente con una visione tradizionalista del liberismo. Il mercato globale è lo scenario sul quale si confrontano e nel quale oggi è presente una nuova, rappresentativa entità economica: l’Unione europea. Ciò comporta, al contempo, conflittualità e competitività che non sempre lo schema teorico della libera concorrenza, connaturata al mercato stesso, riesce a coniugare, talvolta inasprendo, invece di attenuare, le condizioni di disuguaglianza anche all’interno delle stesse nazioni più sviluppate. Inoltre, l’accumulazione di elevate riserve valutarie permette alla Cina di poter investire, attraverso i Fondi sovrani, nell’acquisizione finanziaria di importanti imprese e società occidentali. Il nuovo capitalismo di Stato si confronta, in tal modo, col tradizionale ma rinnovato capitalismo di mercato, in condizioni di tale variabilità e volatilità da non permettere adeguate previsioni sugli esiti futuri.
Un’analisi che vada oltre la sola interpretazione economica può essere utile, perciò, a meglio comprendere quanto stia accadendo, in particolare alla luce delle conseguenze che il paventato protezionismo di Trump può provocare sui flussi del commercio mondiale e, soprattutto, da e verso la Repubblica popolare cinese.
François Jullien, il più importante sinologo vivente, ha scritto che in Cina non si pensa in termini di mezzi e fini ma di condizioni e conseguenze, nel senso di trarre effetti vantaggiosi da condizioni esterne favorevoli. Non a caso, come ho sottolineato in altra sede, nella Repubblica popolare il termine globalizzazione ha un significato opposto alla internazionalizzazione, perché tradotto con Quanqiuhua, che ha risonanza taoista e confuciana. Il termine è composto da Quan=Tutto, Qiu=Terrestre, Hua=Azione, e si riferisce al concetto di “Cina interna” o anche di “centro del mondo”, come testimonia la sua stessa auto-denominazione Zhongguo, cioè il “Paese del centro”, perché è il perno della civiltà universale (Tianxia), da cui si irradiano i valori. Dunque, non è uno Stato, ma la civiltà stessa.
Si tratta, allora, di internalizzare la globalizzazione e ricondurla alla individualità nazionale o, se si preferisce, all’integrità culturale e politica. Perciò, la leadership post-maoista l’ha identificata nell’introduzione di capitali stranieri e tecnologie innovative necessarie ad attuare un processo di modernizzazione economica. Quest’ultima facilitata dai vantaggi comparati che offre il Celeste impero per il più basso costo del lavoro e per una normativa di fatto assai blanda sull’inquinamento, nonostante la sua condivisione del protocollo di Kyoto e, recentemente, degli accordi di Parigi, da cui, come è noto, Trump si è dissociato.
La Cina, attraverso specifiche strategie che definirei di insourcing, si è posta in modo speculare rispetto alle politiche di outsourcing e offshoring degli Stati Uniti e degli altri paesi a tecnologia avanzata e con alti costi della manodopera. All’inizio, specializzandosi nelle produzioni che richiedevano l’uso prevalente di forza lavoro, poiché caratterizzata da una struttura produttiva labour-intensive, e avvalendosi di efficaci incentivi di attrattività verso le imprese delle nazioni industrialmente avanzate. Oggi, proiettandosi entro poco più di un decennio verso il superamento degli Stati Uniti nel campo dell’intelligenza artificiale e, più in generale, dell’innovazione, per raggiungere, entro il 2050, oltre i mille miliardi di investimenti infrastrutturali e diventare la prima potenza economica al mondo.
Questa strategia, ben sintetizzata dal presidente Xi Jinping che a Davos si è posto come strenuo difensore della globalizzazione, ma – come ha fatto inserire nello statuto del partito comunista all’ultimo congresso dell’ ottobre scorso – sempre nell’ambito di un “socialismo con le caratteristiche cinesi per una nuova era”, non è, e non è stata, senza conseguenze per gli Stati Uniti e per le attuali politiche protezionistiche di Trump, in particolare per quanto riguarda le recenti proposte di dazi su acciaio e alluminio, rispettivamente del 25% e del 10%, provenienti dal Celeste impero e dall’India.
Donald Trump è stato eletto grazie ai voti degli Stati dove la globalizzazione ha accelerato il processo di deindustrializzazione in comparti quali l’automobilistico, il siderurgico e il metallurgico e dove la rarefazione della middle-class, e delle professioni tradizionali che ne erano l’espressione, ha causato un elevato indice di disuguaglianza ed ha ridotto nell’indigenza oltre il 15% della popolazione, abbassandone anche la speranza di vita. In proposito, Noam Chomsky ha scritto che Trump si è rivolto “a quanti vivono sulla propria pelle il degrado della società americana e fa leva sul profondo senso di rabbia, paura, frustrazione e impotenza di settori della nazione in cui la mortalità è in aumento: un fatto assolutamente inedito, se si escludono le guerre”. Ed è significativo, infatti, che Trump nel suo primo discorso da Presidente degli Stati Uniti abbia rimarcato: “Per molti decenni abbiamo arricchito le industrie straniere a danno di industrie americane… a una a una le fabbriche chiudevano i battenti e abbandonavano il nostro paese, senza la minima riflessione riguardo a milioni di americani che si lasciavano alle spalle”.
Era l’essenza del programma di politica industriale – largamente anticipato durante la sua campagna elettorale – di America First, che ha visto rientrare negli USA non pochi comparti dell’ automotive, attrarre circa 70 miliardi di investimento a pochi giorni dall’annuncio della riduzione della tassazione sulle imprese dal 35% al 21% e la conferma di una politica protezionistica contro la concorrenza sleale della Cina, attuata attraverso aiuti di Stato alle aziende, politiche di dumping e condizioni inadeguate per il rispetto degli standard di sostenibilità relativi alla salute e ai diritti della manodopera. D’’altronde, già all’atto del suo ingresso nella WTO, nel 2001, non poche voci si levarono contro il pericolo che essa presentava, per queste e altre cause che ne agevolavano la competitività di costo, per la salvaguardia e per i livelli di occupazione delle aziende manifatturiere dell’Occidente. Fino a coniare il termine Beijing Consensus, per indicare un modello di sviluppo a trazione pubblica e in opposizione al Washington Consensus, fondato sul paradigma neo-classico del mercato.
La produzione di acciaio e di alluminio, che ha provocato la fusione di due tra le più grandi acciaierie statali cinesi con un capitale superiore ai 100 miliardi di dollari, non è l’unica che si avvantaggia di dumping e di concorrenza sleale; anche molte derrate quali mais, grano o riso godono di elevati sussidi elargiti dal regime della Repubblica popolare, senza contare l’incidenza delle società pubbliche nei settori dell’energia, della finanza e dell’informazione. Come ha scritto Antonio Badini nel suo volume Disordine mondiale, per i tipi della LUISS University Press, “tradizionalmente la Cina ha mantenuto nei confronti degli Stati Uniti un atteggiamento utilitarista, cercando il modo di trarre dai loro rapporti il miglior vantaggio”. Vantaggio che sta ottenendo, ancor più, dal nuovo contesto geopolitico instaurato con i Paesi dell’America latina, da dove importa materie prime in cambio di manufatti a basso prezzo che escludono dai mercati locali i prodotti fabbricati in loco; con l’uso attento della sua moneta svalutata in rapporto al suo reale valore per favorire ulteriormente le esportazioni o grazie al controllo imposto dal regime sui flussi di capitale.
La transizione che stiamo vivendo verso la de-globalizzazione, in conclusione, è solo la dimostrazione della difficoltà – se non della impossibilità – di far convivere in un mercato libero concorrenziale con regole valide per tutti gli attori dell’economia, regimi politici opposti e ideologicamente ancora troppo distanti tra loro. Forse, dovremmo far nostra la lezione di Mark Fisher: è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.
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