Jeffrey Sachs e gli USA dopo Trump. Perché essere ottimisti sulla creazione di una nuova economia americana
14 marzo 2018
Lo scopo di questo libro è esplorare le scelte economiche che gli Stati Uniti hanno davanti a sé e le loro relazioni con il resto del mondo all’inizio della nuova amministrazione del presidente Donald Trump e del nuovo Congresso. Una delle ragioni che hanno condotto allo stallo in cui si trova Washington ormai da anni è che entrambi i partiti hanno inseguito una visione profondamente approssimativa dell’America. I repubblicani hanno chiesto “meno governo”, quando invece abbiamo bisogno di un governo che faccia di più e meglio per affrontare la lenta crescita economica, la crescente disuguaglianza e le gravissime minacce ambientali. I democratici hanno chiesto “più governo”, ma senza un pensiero chiaro sulle priorità, sui programmi, sulla gestione e sulle finanze di tale ruolo espanso.
Quest’opera traccia un percorso migliore da intraprendere nelle politiche pubbliche, con obiettivi sul lungo periodo per la società, incentrati attorno al concetto di sviluppo sostenibile. Andrò a delineare una strategia di investimenti graduali, sia pubblici che privati, e i mezzi per finanziarli. Intendo mettere in evidenza che il modo per uscire dallo stallo a Washington è costruire un nuovo consenso nazionale che si fondi su un brainstorming locale in ogni parte del paese. Il presidente Trump e il Congresso rimarranno intralciati finché sentiranno dalla gente di tutto il paese che è arrivato il momento di un grande cambiamento, con obiettivi, direzione politica e finanziamenti chiari.
È mia opinione che con le scelte giuste, il futuro economico degli Stati Uniti sarà luminoso. Anzi, siamo i fortunati beneficiari di una rivoluzione delle tecnologie che può aumentare la prosperità, abbattere la povertà, aumentare il tempo libero, allungare le vite sane, e proteggere l’ambiente. Sembra una buona notizia, forse troppo buona per essere vera, ma è vera. Il pessimismo dilagante – che i bambini americani cresceranno oggi con tenori di vita peggiori dei loro genitori – è una possibilità reale, ma non inevitabile.
Il concetto più importante per il nostro futuro economico è che la scelta è nostra e nelle nostre mani, sia come individui sia come collettività di cittadini.
Le ragioni del pessimismo sono reali. Gli Stati Uniti stanno registrando i tassi di crescita più bassi dal dopoguerra. La crescita economica dalla crisi finanziaria del 2008 è stata circa la metà rispetto alle previsioni del 2009: 1,4 per cento di crescita annuale dal 2009 al 2015 rispetto a previsioni del 2,7 per cento. Circa l’81 per cento delle famiglie americane, secondo uno studio recente McKinsey, ha registrato redditi uguali o minori tra il 2005 e il 2014.[1] Nel contempo, la disuguaglianza di reddito è andata alle stelle negli ultimi trentacinque anni, accrescendo così la concentrazione di ricchezza e di reddito tra l’1 per cento più ricco della popolazione. Nel 1980, l’1 per cento ha guadagnato il 10 per cento del reddito delle famiglie; nel 2015, la cifra è salita fino all’incirca al 22 per cento.[2]
Mentre la disoccupazione è diminuita, da un picco del 10 per cento nell’ottobre del 2009, nel pieno della crisi finanziaria, all’attuale tasso basso di circa il 5 per cento, parte della ripresa si è avuta perché individui in età lavorativa hanno lasciato del tutto la forza lavoro, frustrati per lavori pagati troppo poco o perché non avevano alcuna prospettiva occupazionale. Il rapporto del lavoro complessivo relativo alla popolazione in età lavorativa (25-54) è calato dall’81,5 per cento nel 2000 al 77,2 per cento nel 2015.
Come se non bastasse, i venti contrari sembrano destinati a continuare. I sentimenti ostili al libero scambio da parte di entrambi i partiti politici nella campagna elettorale del 2016, che hanno condotto sia Donald Trump sia Hillary Clinton a rifiutare una bozza di accordo commerciale con l’Asia, riflettono un sentimento diffuso che l’America abbia perso posti di lavoro in grande quantità a causa della competizione con i bassi salari cinesi e di altri paesi, e che altri si perderanno in futuro. Ricerche recenti suggeriscono che tali timori, a lungo scherniti dagli economisti, hanno un fondamento nella realtà.[3] I lavori del settore manifatturiero statunitense si sono spostati oltreoceano, al di là della perdita causata dall’automazione. Le contee degli Stati Uniti in prima linea nella competizione con la manifattura cinese hanno registrato la maggiore perdita di posti di lavoro.
L’automazione è diventata un’altra fonte di grandi ansie. Anche in questo caso, gli economisti hanno in genere preso poco sul serio i timori della gente che le macchine ci avrebbero portato via il lavoro.[4] L’intera èra industriale non ha dimostrato che questo punto di vista è sbagliato? Si chiedono in modo retorico. Le nuove macchine e tecnologie non hanno sempre creato più lavori di quanto siano costate? Sono interrogativi legittimi, ma altrettanto lo sono i timori. Sembra che l’avvento di macchine intelligenti stia spostando i redditi dai lavoratori al capitale, abbassando così i salari, e contribuendo alla frustrazione di lavoratori a salari bassi nella ricerca di un lavoro che permetta loro di vivere. Alcuni vengono del tutto esclusi dalla forza lavoro, e sta diminuendo la quota destinata al lavoro nel reddito nazionale, segno che lavori dignitosi sono in effetti sostituiti dai robot.
Quindi sì, gli americani hanno il diritto di nutrire molti timori economici: che gli operatori di Wall Street destabilizzino l’economia; che l’1 per cento più ricco si accaparri la fetta maggiore della crescita economica; che lavori e salari vengano persi a favore della Cina e dei robot. Ma vi sono anche altri motivi per cui preoccuparsi.
Nel 2016 il deficit del bilancio federale era circa del 2,9 per cento del prodotto interno lordo (PIL), ma considerate le attuali tendenze salirà a circa il 4 per cento del PIL negli anni a venire. La conseguenza di deficit di bilancio cronicamente elevati è un debito pubblico in rapido aumento. Il debito del Tesoro in circolazione in patria e all’estero è andato alle stelle, dal 35 per cento del PIL statunitense alla fine del 2007 al 75 per cento alla fine del 2015. Il Congressional Budget Office avverte che, secondo le attuali politiche fiscali, tale debito raggiungerà probabilmente circa l’86 per cento del PIL nel 2026 e il 110 per cento del PIL nel 2036.[5]
La sostenibilità del debito è una parte del futuro che lasciamo ai bambini di oggi. L’altra, naturalmente, è quella ambientale. E se qui c’è qualcosa di cui preoccuparsi e che ci tiene svegli la notte, è il danno implacabile, estenuante e costante che gli americani e il resto della popolazione mondiale stanno arrecando all’ambiente. Non possiamo stare tranquilli sul futuro della nostra economia, e consiglierei di non farlo per un solo secondo, fino a quando non individuiamo un percorso verso la sicurezza climatica e la vera sostenibilità della nostra acqua, aria e biodiversità. Soprattutto dobbiamo ristrutturare il sistema energetico, per spostarci da un’energia che si fonda sul carbonio – carbone, petrolio e gas – verso fonti energetiche non a carbonio – vento, sole, acqua, nucleare, e altre che non provocano il riscaldamento globale. Per fortuna, l’America è piena di risorse di energia rinnovabile. Ma vi sono molti altri passi da intraprendere per raggiungere la sostenibilità ambientale, e li affronterò più diffusamente nei prossimi capitoli.
Infine, si aggiunga a queste sfide la politica della nostra nazione piena di contrasti e di corruzione, e non è difficile essere pessimisti. Alcuni dei principali economisti hanno persino dichiarato la fine di due secoli di crescita economica. Siamo, per utilizzare il loro gergo, in una nuova èra di “stagnazione secolare”. E se la crescita è arrivata al capolinea, potrebbe essere in pericolo anche la stabilità sociale, se l’economia si trasforma in una lotta a “somma zero” in cui i guadagni di alcuni gruppi devono essere le perdite di altri.
Robert Gordon, il decano del pessimismo (e autore di un nuovo bellissimo libro The Rise and Fall of American Growth), dice che abbiamo semplicemente esaurito grandi nuove invenzioni che mantengano in moto l’economia.[6] Gordon sostiene che gli smartphone e internet non sono all’altezza delle mega scoperte come il motore a vapore, l’elettricità, la TV e la radio, l’automobile e l’aviazione – i grandi motori tecnologici di due secoli di crescita economica.
La mia tesi, che andrò a esporre nel corso dell’opera, è che i pessimisti hanno le loro ragioni, ma che nel complesso si sbagliano. Non siamo alla fine del progresso, sempre che agiamo tutti insieme. E possiamo farlo. Anche la paralisi politica può terminare se riusciamo a discernere in modo più accurato e chiaro la strada giusta da percorrere per uscire dai nostri problemi nazionali. In passato l’America ha fronteggiato e superato molti problemi spaventosi ed enormi – la Grande Depressione, il nazismo e lo stalinismo, l’esclusione politica degli afroamericani, la povertà e il grande peso delle malattie degli anziani – e può farlo di nuovo.
[1] McKinsey Global Institute, Poorer That Their Parents? Flat of Falling Incomes in Advanced Economies, luglio 2016.
[2] Emmanuel Saez, “Striking It Richer: The Evolution of Top Incomes in the United States” (aggiornato con stime preliminari del 2015), Working Paper, University of California at Berkeley, 30 giugno 2016.
[3] Daron Acemoglu, David Autor, David Dorn, Gordon H. Hanson e Brendan Price, Import Competition and the Great US Employment Sag of the 2000s, «Journal of Labor Economies», 34, 2, 2016, pp. S141-S198.
[4] Per un esempio recente si veda Deloitte, Technology and People: The Great Job-Creating Machine, agosto 2015.
[5] Congressional Budget Office, The 2016 Long-Term Budget Outlook, luglio 2016.
[6] Robert Gordon, The Rise and Fall of American Growth, Princeton University Press, Princeton 2016.

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