Il caso Moro e l’etica pubblica in Italia. Una questione problematica
16 marzo 2018
Il sequestro e la “linea della fermezza”
ll 16 marzo 1978, qualche minuto prima delle nove, l’onorevole Aldo Moro […] esce dal portone numero 79 di via del Forte Trionfale. Sono ad attenderlo la 130 blu di rappresentanza e un’alfetta bianca con la scorta. Il Presidente deve prima recarsi al Centro Studi della Democrazia Cristiana poi, alle dieci, alla Camera dei deputati, dove l’onorevole Andreotti presenterà il nuovo governo e ne dichiarerà il programma. Di questo nuovo governo, che sarà il primo governo democristiano sorretto anche dai voti comunisti, l’onorevole Moro è stato accorto e paziente artefice (Sciascia, L’affaire Moro).
Questa è la descrizione che Sciascia dà della mattina in cui Aldo Moro viene rapito dalle Brigate rosse, dopo un attacco al corteo di macchine in via Fani a Roma, che causa la morte di cinque uomini della scorta.
Il rapimento Moro giunge al culmine di anni in cui la rinascita economica dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale arrivava a compimento e al tempo stesso le istituzioni e il paese erano scossi da uno dei più agguerriti terrorismi dell’Europa occidentale. Moro rimarrà prigioniero dei terroristi per cinquantacinque giorni, in un appartamento in via Montalcini 8, nel quartiere romano della Magliana. Dalla cosiddetta «prigione del popolo» scriverà a mano un centinaio fra lettere e messaggi e circa quattrocento pagine di memoriale, in risposta alle domande dei suoi carcerieri.
Con il sostegno del Pci e della maggioranza del paese, il governo decide una strategia che verrà chiamata la «linea della fermezza»: non accettare nessun dialogo con le Brigate rosse, a nessuna condizione. Il 21 aprile Papa Paolo VI invia una lettera agli «uomini delle Brigate rosse». In essa chiede di restituire «alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile, l’onorevole Aldo Moro», e di farlo «semplicemente senza condizioni».
Dopo tredici giorni dal sequestro, Moro si fa vivo. Inizia così una lunga vicenda mediatica e politica, un’alternanza continua di strategie fra i membri del governo e di atteggiamenti nell’opinione pubblica, sempre con la spada di Damocle della morte possibile del prigioniero.
Moro scrive due lettere, una a Cossiga (recapitata il 29 marzo), l’altra a Benigno Zaccagnini, segretario della Dc (consegnata il 4 aprile). Il messaggio a Cossiga viene inviato tramite un collaboratore di Moro, Nicola Rana. Moro scrive a Rana: «La mia idea e speranza è che questo filo, che cerco di allacciare, resti segreto il più a lungo possibile»; a Cossiga dice: «Ti scrivo in modo molto riservato»; a Zaccagnini chiede di avviare «riservatissimi contatti con pochi qualificati capi politici». Insomma, Moro suggerisce di intavolare una trattativa segreta con i brigatisti. Sa benissimo, in questo momento, che la segretezza è un elemento essenziale per la riuscita della trattativa e per la sua personale salvezza.
Forse Moro non è veramente convinto di quel che scrive; forse vuole solo prendere tempo, per consentire alle forze dell’ordine di trovarlo. Come scrive Sciascia, «che fosse già da prima dell’opinione che uno Stato di diritto potesse e dovesse trattare scambio di prigionieri con bande eversive, che vi si convincesse per salvare la propria vita o che fingesse di esserne convinto, la cosa certa è questa: se Moro non si fosse mostrato in disposizione di collaborare al ricatto delle Brigate rosse, nessuna sua lettera sarebbe uscita dalla “prigione del popolo”».
Ma quali che fossero i propositi di Moro, i terroristi li vanificano. In un comunicato scrivono: Moro «ha chiesto di scrivere una lettera segreta (le manovre occulte sono la normalità per la mafia democristiana) al governo ed in particolare al capo degli sbirri Cossiga. Gli è stato concesso, ma siccome niente deve essere nascosto al popolo, ed è questo il nostro costume, la rendiamo pubblica».
Ai brigatisti non interessava affatto la trattativa, ma l’effetto delle lettere, sulla credibilità di Moro medesimo e del governo: «Le Brigate rosse avevano interesse a che Moro apparisse come il solo rogante e sollecitatore dello scambio cui poi loro, per clemenza e come a commisurazione della condanna a morte, si sarebbero resi» (Sciascia L’affaire Moro).
Nella prima fase del sequestro, fino al 15 aprile, spiega Gotor, «i brigatisti non fecero altro che ricattare il governo minacciando di divulgare le dichiarazioni fatte da Moro nel corso del processo. Era come se per loro il prigioniero come persona fisica non esistesse e il potere di ricatto insito in un atto di sequestro fosse costituito solo dall’annunciata pubblicità delle sue rivelazioni». Le Br usano le lettere di Moro come una «clava, per dividere il fronte della fermezza, distruggere la maggioranza di governo, spezzare qualsiasi vincolo di fiducia tra la famiglia e le istituzioni repubblicane e, al tempo stesso, corrodere la figura politica e morale di Moro presso l’opinione pubblica italiana» (Lettere dalla prigionia).
La posizione che emerge nelle due lettere a Cossiga e a Zaccagnini è la seguente. Non è in ballo una vita umana soltanto, ma la salvezza dello Stato, che potrebbe essere messa a repentaglio dalle cose che Moro sa e potrebbe essere costretto a dire ai terroristi (non tanto per salvarsi, ché egli sa che l’unica via di salvezza è la trattativa, non certo la confessione, ma per l’inevitabile debolezza di fronte a minacce di tortura). Ecco le sue parole: «Io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato, avendo tutte le conoscenze che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni. Inoltre la dottrina per la quale il rapimento non deve re-care vantaggi, discutibile già nei casi comuni, dove il danno del rapito è estremamente probabile, non regge in circostanze politiche, dove si provocano danni sicuri e incalcolabili non solo alla persona, ma allo Stato».
Mentre Cossiga è nello studio di Andreotti, in una riunione segreta per aprire una trattativa, esce il comunicato ANSA che rende pubblica la lettera di Moro da cui sono tratte le parole citate qui sopra. Di fronte al fatto che i terroristi non vogliono la trattativa, o che la vogliono ma non in segreto, che, cioè, cercano principalmente un riconoscimento politico, il fronte del governo e della politica si ricompatta e sceglie la linea della fermezza, spingendosi fino a combattere i terroristi con le loro stesse armi. I brigatisti pongono al centro della scena le parole di Moro; il governo prova in tutti i modi a svalutarle e a svalutare implicitamente anche il loro autore, procedendo a un vero e proprio «congelamento della parola del prigioniero» (Gotor). La stampa e l’opinione pubblica si conformano a questa linea: il titolo della “Repubblica” del 30 marzo, dopo la prima lettera a Cossiga, è Quelle parole non sono le sue, e Fausto De Luca intitola il suo pezzo Parole scritte sotto tortura. Il 4 aprile, Andreotti alla Camera definisce le lettere di Moro «non moralmente autentiche», e la nota che accompagna la lettera a Zaccagnini sul “Popolo”, il giornale di partito della Dc, dichiara, fra le altre cose, che la missiva non è «moralmente a lui ascrivibile», date «le condizioni di assoluta coercizione nella quale simili documenti vengono scritti». Il 30 aprile, scrivendo a Riccardo Misasi, allora presidente della Commissione giustizia della Camera, Moro commenta amaramente: «Moro insomma non è Moro, tesi nella quale si sono lasciati irretire amici carissimi, ignari di prestarsi a una vera speculazione» e nell’ultima lettera a Zaccagnini: «Non scrivo sotto dettatura delle Brigate Rosse» e in uno dei suoi testamenti: «Tengo a precisare di dire queste cose con piena lucidità almeno quanta può averne chi è da quindici giorni in una situazione eccezionale». Ma su questa strategia concordarono anche uomini del Pci come Paolo Bufalini e Giorgio Napolitano. Sciascia commenta: «Suggestionato o convinto, Moro ormai parla come le Brigate rosse e per le Brigate rosse: questa è la tesi che come una enorme pietra tombale scende sull’uomo vivo, combattivo e acuto che Moro è ancora nella “prigione del popolo”, mentre si ricorda e celebra il Moro già morto, il Moro da monumentare». Infine, il governo diffonde pareri medici secondo le quali Moro sarebbe affetto dalla sindrome di Stoccolma, cioè da un’identificazione con le ragioni degli aggressori.
Ma nonostante tutto, man mano la linea della fermezza perde parte del consenso: erano contrari sin dall’inizio, ovviamente, la famiglia e gli amici stretti del rapito, ma manifestano dubbi anche intellettuali cattolici e religiosi (Mario Agnes, don Gianni Baget Bozzo, Raniero La Valle, padre Davide Maria Turoldo); due storici dirigenti comunisti come Umberto Terracini e Lucio Lombardo Radice firmano un appello per la liberazione di Moro su Lotta continua del 19 aprile; è contrario anche Amintore Fanfani; il Presidente della repubblica Giovanni Leone sarebbe incline a firmare la grazia per liberare un detenuto delle Br Bettino Craxi e Claudio Signorile schierano il Psi a favore di una trattativa e avviano contatti con le Br.
La “trasformazione” di Moro
Come spiega Miguel Gotor, gli effetti dell’azione di propaganda terroristica sono stati profondi e perversi, in quei giorni, e hanno finito per distruggere «la moralità pubblica e la statura politica» di Moro:
Moro nel 1946 aveva lavorato nella sottocommissione della Costituente che si era occupata dei caratteri politici generali dello Stato e dei diritti e doveri dei cittadini e, a soli ventinove anni, aveva fatto parte dei diciotto Padri costituenti che avevano scritto materialmente la Costituzione. Come sia stato possibile in quei cinquantacinque giorni credere e far credere all’opinione pubblica italiana che un uomo politico della storia e della levatura di Moro, del riserbo e dell’orgoglio di Moro, rivolgendosi alle più alte cariche dello Stato con lettere di cui auspicava la massima diffusione alla stampa (Leone, Fanfani, Ingrao, Andreotti) abbia potuto in piena autonomia scrivere una serie di messaggi in cui sostanzialmente scriveva «salvatemi perché tengo famiglia», la dice lunga sugli effetti terroristici dell’azione brigatista a livello psicologico e morale. Ma quel risultato propagandistico dice anche molto circa la predisposizione culturale al cinismo, all’opportunismo e al disfattismo di una classe dirigente che assistette pavida, silente e smarrita al massacro morale di un uomo (Lettere dalla prigionia).
Per giungere all’esterno della sua prigione, le parole di Moro debbono superare quattro diversi livelli di mediazione e schermatura. I terroristi impiegano due modalità di censura. Una prima censura è di diffusione: decidono i modi di distribuzione degli scritti di Moro, stabilendo quali lettere recapitare, quali rendere pubbliche e quali tenere segrete. Una seconda censura è di composizione: spesso le Br costruiscono letteralmente il testo di Moro, imponendogli di riscrivere, di collazionare o di integrare le sue stesure originali. In tutte le fasi del sequestro, con lucida coerenza, le Br indicano Moro, o meglio quel che loro costruiscono come Moro, come interlocutore all’esterno.
Questo è il primo livello di schermatura. A esso si aggiunge, fin da subito, il tentativo di Moro medesimo di aggirare la doppia censura dei suoi carcerieri e di mandare messaggi all’esterno con vari mezzi – che andavano da accenni criptici, interpolazioni volute, errori volontari e così via. (Sciascia scrive che nelle sue lettere Moro «ha dovuto tentare di dire col linguaggio del nondire, doveva comunicare usando il linguaggio dell’incomunicabilità. Per necessità: e cioè per censura e per autocensura. Da prigioniero. Da spia in territorio nemico e dal nemico vigilata». Questo è il secondo livello di schermatura.
Ma i tentativi di Moro si infrangono spesso contro quella che ho chiamato censura di diffusione. I terroristi fanno pervenire solo alcuni dei materiali (senza dire a Moro quali, rendendo così inefficaci eventuali riferimenti impliciti che egli poteva fare nelle sue lettere), sopprimono pagine, e così via. Questo è il terzo livello di schermatura.
Infine, c’è un’ultima schermatura, quella esterna, che avviene in tre maniere. Alcune lettere non vengono rese pubbliche dai loro destinatari; altre lettere e scritti di Moro non si sono mai più ritrovati, e non è dato sapere chi le abbia o se esistano ancora; i testi pubblici di Moro vengono variamente interpretati e sovrainterpretati, in quei giorni e per molti anni dopo.
Questi molteplici livelli di schermatura hanno finito per costruire, volente o nolente, un autore nuovo, ma fittizio, di quei testi e del loro significato – fors’anche una sorta di autore collettivo. Quest’autore fittizio ha finito per mangiarsi il vero autore, l’uomo reale che poteva starci dietro, quell’uomo che le Br restituirono cadavere – cadavere fisicamente e forse anche moralmente.
Quest’autore collettivo – questo insieme formato dalle intenzioni di Moro, dai biechi scopi dei terroristi, dall’interazione fra veline governative, segreti investigativi, reticenze degli indagati e libere interpretazioni degli osservatori – è ciò che mi interessa qui. Perché negli scritti di quest’autore collettivo è presente, in positivo e in negativo, una concezione delle relazioni fra moralità e politica. In particolare, c’è da una parte un’affermazione dell’etica pubblica, dall’altra una negazione di essa. E a volte entrambe, affermazione e negazione, partono dagli stessi presupposti e arrivano a conclusioni quasi coincidenti.
Terrorismo, segretezza ed etica pubblica
Nella vicenda di Moro si possono ritrovare tre problemi ampiamente discussi dagli studiosi di filosofia morale e politica. In primo luogo, c’è la questione del terrorismo. Il terrorismo è difficile da definire – lo si deve distinguere dalla guerra, e forse anche dalla guerriglia –, e pone problemi morali e politici speciali. Si deve trattare con i terroristi? Lo si deve fare sempre, per salvare gli ostaggi? Si debbono considerare i terroristi nemici in guerra o criminali comuni? E così via.
Ci sono poi due questioni relative alla segretezza. Moro era a rischio di divulgare segreti il cui disvelamento avrebbe potuto danneggiare lo Stato – plausibilmente si trattava di informazioni riservate su vicende oscure della storia italiana di quegli anni, sul coinvolgimento di altri politici in inchieste giudiziarie, sui rapporti internazionali dell’Italia, e così via. Si possono porre due domande: è giusto che ci siano segreti di Stato che sfuggano al controllo democratico dei cittadini? E, ammesso che sia giusto mantenere il segreto, informazioni del genere possono avere un valore tale da giustificare il sacrificio di vite umane?
C’è una seconda questione che riguarda la segretezza. Per molti (forse anche per Moro) una trattativa doveva esserci, ma doveva rimanere segreta. Qui la domanda è: può uno Stato democratico trattare con i terroristi, senza abbassarsi al loro livello e perdere legittimità? E, se è lecita una trattativa segreta, perché non è legittima anche una trattativa pubblica? Sono domande simili a quelle sull’ammissibilità del segreto di Stato in un regime democratico, ma più specifiche.
Quelle che ho elencato sin qui sono questioni di filosofia politica applicata – sono problemi che riguardano la natura e le funzioni dello Stato, e in particolare dello Stato democratico, e i diritti dei suoi cittadini. A me qui preme una questione diversa: ammessa una qualsiasi delle tesi accennate prima (assumendo ad esempio che i terroristi siano equiparabili a nemici in guerra), quali sono i doveri e i diritti di un politico? Sono tali diritti o doveri distinti rispetto a quelli del cittadini? E sono del tutto distinti, perché fanno parte di un orizzonte esclusivamente politico, oppure sono anch’essi diritti e doveri che possiamo giudicare dalla prospettiva della moralità? Ammesso per esempio che una trattativa coi terroristi sia lecita, e sia lecito condurla in segreto, questo implica che i politici non abbiano il dovere della sincerità, o che tale dovere si allenti per loro, pur avendo chiari i prezzi morali e i limiti di un tale allentamento? La vita di Moro era una questione privata, dell’individuo (padre di famiglia, professore e così via), o una questione pubblica, perché Moro era un rappresentante dello Stato italiano e non poteva smettere di esserlo? Queste specifiche domande riguardano questioni di etica pubblica. E si tratta di interrogativi che si posero effettivamente i molti che rifletterono su quelle vicende della primavera del 1978.
Questo brano è tratto dal libro di Gianfranco Pellegrino Etica pubblica. Una piccola introduzione, edito da LUISS University Press.
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