Ecco perché non è possibile sottovalutare il ruolo di Draghi nel salvataggio dell’euro
20 marzo 2018
Il 9 marzo 2015, con l’Europa che ondeggiava pericolosamente sul crinale della deflazione, la Banca centrale europea (Bce) presieduta da Mario Draghi lanciò il cosiddetto “Quantitative easing”, un programma straordinario di acquisto di titoli di Stato dei paesi dell’Eurozona. Tre anni dopo, lo stesso presidente Draghi ha fatto capire che quel programma potrebbe terminare nei prossimi mesi. Per l’economista Daniel Gros, “l’importanza del Quantitative easing nell’Eurozona è stata fortemente esagerata”. LUISS Open ha chiesto un giudizio anche a Pierpaolo Benigno, professore di Economia alla LUISS e uno dei massimi esperti di politica monetaria.
Pierpaolo Benigno. L’effetto dei soli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce è effettivamente difficile da stimare. Le recenti dichiarazioni del presidente della Bce, Mario Draghi, consentono però un ulteriore livello di analisi di questa politica straordinaria. Innanzitutto precisiamo che la quantità di acquisti da parte della Bce è già calata da 60 miliardi di euro al mese a 30 miliardi al mese; inoltre nel momento in cui tali acquisti si interromperanno, quei titoli rimarranno ancora in bilancio per qualche tempo.
Detto ciò, un’eventuale fine degli acquisti dei titoli di Stato avrebbe per certo l’effetto di un “segnalatore” delle scelte future della Bce: segnalerebbe cioè che eventualmente inizierà una fase di rialzo dei tassi di interesse di riferimento, come negli Stati Uniti. Tre anni fa, l’avvio del Quantitative easing mandò ai mercati il segnale opposto, cioè garantì maggiore credibilità – e quindi efficacia – all’annuncio di voler tenere i tassi a zero per molto tempo e quindi a quella che gli economisti chiamano “forward guidance”. In sintesi, l’effetto dei soli acquisti di titoli di Stato è difficile da stimare, ma non va sottovalutato l’effetto “segnaletico” degli stessi.
C’è poi un terzo fattore da tenere presente: la rilevanza degli acquisti nell’ambito del Qe non va vista alla luce della sola riduzione dello spread fra titoli sovrani. L’acquisto di titoli di Stato, infatti, è un’operazione di politica monetaria e non di finanziamento degli Stati. Ancora una volta, però, anche su inflazione e spread è difficile separare l’effetto del Qe dal solo effetto dei tassi di riferimento azzerati.
Infine, non c’è da stupirsi per il fatto che non ci sia stato un terremoto finanziario all’indomani delle parole di Draghi sul progressivo esaurimento del Quantitative easing: i mercati, infatti, incorporavano già questo evento, lo scontavano, e dunque una correzione progressiva è cominciata da tempo.
Per ricapitolare il mio ragionamento: è difficile quantificare con precisione gli effetti del Quantitative easing della Bce, ma è altrettanto difficile sostenere con certezza che il Qe non abbia avuto effetto. D’altronde le evidenze empiriche dimostrano invece che le economie dell’Eurozona si sono riprese. Se proprio dovessi sottolineare un problema attuale, direi che è quello posto da un’inflazione ancora sotto il target della Bce. Ecco dunque l’ennesima conferma che, come dice Draghi, abbandonare una politica monetaria espansiva oggi sarebbe problematico.
LUISS Open. Secondo le regole del Qe stabilite dalla Bce, ad acquistare i titoli di Stato dei rispettivi Paesi sono le Banche centrali nazionali di ciascun Paese membro dell’Eurozona. Qual è l’effetto di questa tecnicalità?
Pierpaolo Benigno. Il rischio, in fondo, rimane sempre in capo ai privati. E questo sarebbe vero anche se, per assurdo, una Banca centrale nazionale acquistasse tutti i titoli di Stato in circolazione in un Paese. Profitti e perdite, anche allora, potrebbero sempre trasferirsi al settore privato. Mi spiego. Ipotizziamo che i titoli di Stato italiani perdano tutto il loro valore, per esempio a seguito di un default: in quel caso la Banca d’Italia – che nella nostra ipotesi di studio avrebbe in pancia tutti i titoli di Stato nazionali – subirebbe perdite ingenti e dovrebbe essere ricapitalizzata. E da chi sarebbe ricapitalizzata se non dal Tesoro italiano, cioè in ultima istanza dai contribuenti?
LUISS Open. Lei di recente ha fatto parte di un gruppo di economisti italiani che hanno criticato alcune proposte di riforma dell’Eurozona arrivate da colleghi tedeschi e francesi. Qual è lo stato dell’arte del dibattito sulla riforma dell’euro?
Pierpaolo Benigno. Innanzitutto è di per sé importante che questo dibattito si svolga, e che abbia al suo centro anche il problema del debito pubblico italiano. Tale dibattito però non dovrebbe vedere protagonisti i soli economisti, considerato che – come dimostrato dalla crisi del 2011 – l’Unione monetaria attuale è decisamente incompleta e alla lunga insostenibile.
Sottolineo che non a caso questo dibattito ha al centro il debito pubblico italiano. Un debito che è all’origine di molte distorsioni in quella che è la terza economia dell’Eurozona, nel senso che implica ed è associato a alti livelli di spesa pubblica e alti livelli di tassazione. Per liberarsi di questo fardello, non esiste quella che gli economisti chiamano “corner solution”, o “soluzione d’angolo”: date le distorsioni che il nostro debito crea, infatti, non è ottimale la scelta di imporre ulteriori misure di austerità sull’economia perché esso diventi sostenibile a tutti i costi, per intenderci. Perciò non considero insensate le tesi di chi parla di una ristrutturazione parziale del debito pubblico italiano, ma a patto che tale ristrutturazione sia accompagnata da un ridimensionamento dei livelli di spesa e di tassazione, e che non avvenga dunque a bocce ferme. Una tale operazione complessiva di politica economica dovrebbe anche tenere conto degli effetti che una ristrutturazione del debito può avere sui conti delle banche e sulla psicologia dei correntisti. Se tutto ciò fosse analizzato a livello europeo e diventasse oggetto di una soluzione concordata che non riguardasse la sola Italia, allora sarebbe davvero il punto da cui ripartire. A essere inammissibili, invece, sono quelle proposte che vogliono semplicemente assegnare un coefficiente di rischio maggiore al debito pubblico italiano, lasciando il debito del Paese in balia del solo mercato, senza occuparsi di riformare spesa, tassazione e dunque funzionamento di un’economia nel medio-lungo termine.
LUISS Open. Nel 2019 Mario Draghi, dopo 8 anni di regolare mandato, lascerà il posto di presidente della Bce. Quanto conta davvero il ruolo di una specifica personalità alla testa di un’istituzione complessa come una Banca centrale?
Pierpaolo Benigno. Il peso della leadership di una Banca centrale si sente eccome. Nel caso della Bce poi, alle dipendenze del Comitato esecutivo – composto da Draghi, dal vicepresidente della Bce e da altri quattro membri – ci sono per esempio le diverse divisioni con il rispettivo apparato di analisi e studi. A ogni riunione dei governatori che fanno parte della Bce, per intenderci, l’analisi macroeconomica che viene presentata come base della discussione e anche lo scenario previsionale annesso sono frutto degli studi di questi ricercatori, che rispondono agli input del Comitato esecutivo.
Nel caso specifico di Draghi, è indubbio inoltre che egli sia stato intellettualmente molto flessibile, aperto dunque anche a input di politiche monetarie non convenzionali. Questo è stato un bene. Se alla guida dell’Eurotower ci fosse stato un banchiere centrale con una visione più aridamente “ortodossa”, non è detto che certe analisi su cui si sono fondate le riunioni della Bce e alcune specifiche scelte di politica monetaria compiute da Francoforte sarebbero state le stesse.
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