Umanesimo Digitale, il futuro è già arrivato
22 marzo 2018
La postmodernità costringe a misurarsi con la complessità di molti dei processi di cambiamento in corso. Complessità vuol dire disponibilità a pensare e ad agire secondo una logica in cui il tutto è diverso dalle parti che lo compongono e in cui l’interconnessione fra sistemi diventa paradigma dominante, attraverso il quale interpretare molte delle trasformazioni in atto. Nel metodo e nel merito è questo l’approccio più appropriato per comprendere le differenti dinamiche relazionali innescate a metà strada fra la tecnologia e l’essere umano, al fine di intercettare le risposte più adeguate rispetto ad esigenze di flessibilità e di adattamento del mondo della formazione, del lavoro, dell’impresa e più in generale della società. La LUISS, impegnata con determinazione in questa sfida, sollecita e promuove una riflessione pubblica sulle caratteristiche ontologiche e fenomenologiche dell’umanesimo digitale. E lo fa con un format, ad uso prevalente dei pubblici delle proprie piattaforme social e di quelle dei propri stakeholder, denominato “Umanesimo Digitale – Dialoghi sulle Professioni del Futuro”.
Anzitutto una domanda: perché “umanesimo digitale”? Cominciamo con il dare una risposta al primo segmento dell’interrogativo: perché “umanesimo”? Parlare di umanesimo significa attingere al portato semantico di una parola che invoca capacità interdisciplinare e ambizione programmatica, sotto molteplici punti di vista. Quando ci si riferisce ad un modello che mette al centro la persona in quanto io sociale e non l’individuo in quanto soggetto ripiegato in sé stesso[1], diventa indispensabile una riflessione intorno a due categorie essenziali nella definizione dei processi di globalizzazione e digitalizzazione: la categoria dello spazio e quella del tempo. In entrambe le categorie, destinate ad intrecciarsi con continuità e regolarità, si avverte l’esigenza della centralità dell’uomo in quanto attore principale dell’esito della propria vicenda esistenziale e in quanto artefice del proprio destino, attraverso il compimento di una sequenza che preveda scelte e decisioni in linea con parametri antropologici e non e, quindi, profondamente legati all’equilibrio dinamico esistente fra “natura” e “cultura”. Un dualismo quest’ultimo della cui integrazione a maggior ragione si ripropone l’urgenza, assistendo tutti noi a forme di indebolimento delle relazioni sociali e di chiusura dell’essere umano nel ristretto perimetro dell’ecosistema individuale, ovvero del processo soggettivo ed autonomo di autodeterminazione. L’uomo è stato l’autore delle innovazioni tecnologiche alla base delle più importanti rivoluzioni industriali: è stato inventore ed innovatore.[2] E la sfida è stata quella di provare ad esserlo, rimanendo sé stesso. La sua centralità va garantita con fermezza anche (soprattutto?) in questa fase di rivoluzione digitale.
Se facciamo riferimento allo “spazio”, va subito detto che i contesti organizzativi e i mercati competitivi sono sempre più fluidi – a seguito di processi di de-localizzazione e re-localizzazione delle attività produttive – e sono sempre più caratterizzati da una diversità culturale ampia e profonda. Si stanno trasformando da multiculturali, nonostante le tradizioni culturali siano oggettivamente uniche e a volte irripetibili, a policulturali, in conseguenza della loro capacità di essere interattive e inclini alla contaminazione. Abbracciare la “diversità” e tesaurizzarla impone la necessità di educare il capitale umano alla presenza dell’altro ed all’interazione con l’altro. Le evidenze empiriche sottolineano che le persone esposte a culture diverse sviluppano una comprensione più approfondita di sé, aumentando la propensione all’autenticità. L’esperienza policulturale innesca un processo di auto-validazione di sé che si concretizza nella disponibilità, non solo teorica, ad incontrare culture “altre” in termini di valori e regole, ma anche ad agevolare la costruzione di processi identitari. L’esperienza policulturale, oltretutto, sarà tanto più piena quanto più le persone tenderanno a identificarsi con le altre culture al punto da sviluppare una nuova forma di identità, un’identità cosmopolita che non certo per questo è una identità liquida, per dirla con Bauman.[3]
Veniamo ora alla categoria del “tempo”. Le università, come molte altre istituzioni e organizzazioni, sono infrastrutture cognitive che assolvono alla funzione di ponte tra passato, presente e futuro. La completezza e la saldatura fra i tre tempi dell’esperienza umana, pur con declinazioni diverse, genera un modello rilevante e performante rispetto alla necessità di recuperare tradizione, consapevolezza e visione, come ricordava Sant’Agostino. L’errore più grosso è quello di vivere schiacciati solo sul tempo del presente, su una “cultura del cronometro”[4] anticamera del “presente continuo”. Se il presente è l’unico tempo che conta, si finisce per ammalarsi di presentismo. Una patologia che ha dei sintomi chiari: assenza di progettualità, scarsa visione, apatia valoriale, anomia, incapacità di governo della complessità.
La LUISS è fiera del proprio passato, ma è altresì consapevole che nessuna istituzione, per quanto importante e prestigiosa, può permettersi di vivere solo di passato e nel passato, né tanto più può essere immersa solo nel presente. Deve vivere sì il presente, in quanto fonte di consapevolezza dell’esistente, recuperando quelle chiavi interpretative che sono frutto di un’identità costruita in decenni, ma sapendo guardare con intelligenza e lungimiranza al futuro. Il nostro compito è quello di munire gli studenti di una cassetta degli attrezzi composita, fatta di conoscenze e competenze, di “hard” e di “soft skill”. Una cassetta degli attrezzi che permetta loro di sapere da dove provengono, cosa stanno facendo e soprattutto dove possono e – non suoni troppo ambizioso – dove devono andare.
Definito l’ambito applicativo del sostantivo “umanesimo”, possiamo ora annotare alcuni elementi del significato dell’aggettivo “digitale”. Si tratta di un termine che incoraggia un ripensamento del ruolo sociale della tecnologia. La scuola di Toronto, guidata dall’economista canadese Harold Innis, nell’elaborazione del paradigma del determinismo tecnologico aveva evidenziato il rischio che le tecnologie non si limitassero ad accompagnare i cambiamenti sociali, ma li determinassero. Per comprendere appieno l’impatto delle tecnologie digitali è opportuno intraprendere una prospettiva analitica di tipo evoluzionista, secondo la quale quella digitale è rivoluzione non solo tecnologica, ma soprattutto socio-antropologica. Del resto, le rivoluzioni industriali hanno da sempre innescato e generato cambiamenti importanti non solo a livello tecnologico, ma anche a livello sociale ed economico, andando oltre il loro obiettivo originario. Per esempio, chi ha inventato l’energia elettrica o la macchina a vapore non immaginava che ne sarebbe scaturito un nuovo sistema industriale e che sarebbe nato un intero e nuovo ordine sociale. Oggi come ieri, le tecnologie digitali stanno trasformando strutture e processi organizzativi delle imprese, reclamando lo sviluppo di nuovi approcci di politica industriale.
Perché, dunque, “umanesimo digitale”? La rivoluzione digitale è “digital tansformation”: un processo che non si esaurisce in una mera iniezione nelle organizzazioni di computer, tecnologia, piattaforme, ovvero che non coincide con la fase della “digital automation”. Impone invece una ridefinizione anzitutto del ruolo del capitale umano nei modelli di gestione dell’impresa. Le tecnologie digitali trasformano il rapporto uomo-macchina in una relazione persona-tecnologia. L’essere umano convive con le tecnologie digitali, al punto che si fida di esse. Le tecnologie digitali sono pervasive essendo ormai parte integrante del nostro lavoro, del nostro tempo libero, delle nostre relazioni, del nostro modo di vivere, sia a livello personale sia livello organizzativo.
La rivoluzione digitale infatti innova e trasforma i modelli del management e del business: digital business, digital communication, digital marketing e digital management. Se da una parte allora essa rende obsoleti professioni e ruoli tradizionali (il Rapporto McKinsey, “Jobs Lost, Jobs Gains” indica infatti che nei prossimi 10 anni, circa la metà degli attuali lavori sarà automatizzato), dall’altro non distrugge lavoro, perché crea nuovi ruoli e nuove professioni, e soprattutto aumenta le professioni. La rivoluzione digitale modifica e trasforma la natura del lavoro, che è stato e sarà ancor di più accresciuto in futuro da macchine automatizzate. Macchine che si faranno carico di compiti cruciali richiedenti abilità semplici, mentre gli esseri umani saranno chiamati a svolgere mansioni più complesse, in quanto tali difficilmente automatizzabili. Quindi, non solo Intelligenza Artificiale (Artificial Intelligence) ma anche e soprattutto Intelligenza Aumentata (Augmented Intelligence).
I dati Unioncamere del 2017 indicano che le “e-skill” sono tra le abilità più ricercate. Questa richiesta di abilità digitali, nell’utilizzo delle tecnologie internet, nella gestione degli strumenti informatici, nella conoscenza di linguaggi matematici ed informatici per organizzare dati qualitativi e quantitativi, cresce al crescere del livello di studio desiderato. Per i laureati si tratta di competenze richieste nella quasi totalità delle professioni; per i diplomati nel 50% dei casi. Il discorso vale anche per le imprese, che più sono innovative e più esportano più richiedono, appunto, “professioni aumentate”. Emerge, quindi, un intreccio virtuoso fra capitale umano e capitale tecnologico alla base proprio delle nuove ed “aumentate” professioni del futuro.
Uno scenario possibile da realizzare solo attraverso il valore della interdisciplinarietà, che è qualcosa di più e di diverso della multidisciplinarietà. Un valore da coltivare anzitutto nell’ambito della formazione universitaria e postuniversitaria. La necessità di alfabetizzazione digitale traversale a tutte le professioni si accompagna infatti all’esigenza di educare le generazioni future al pensiero critico ed indipendente, al pensiero analitico e visionario. È necessario (e lo sarà sempre di più) un momento di creatività, di intuizione geniale, per esempio per interrogare i cosiddetti Big Data e sviluppare la domanda migliore.
Oltre ad insegnare la basi della tecnologia digitale, sarà opportuno continuare ad instillare nei giovani curiosità e creatività attraverso lo studio delle arti liberali, delle “humanities”, e quindi della filosofia, della sociologia e della psicologia.[5] Per sintetizzare questo pensiero, Aoun ha coniato il neologismo “humanics” quale base per un nuovo modello di formazione universitaria a prova di robot.[6] L’architettura della formazione universitaria impregnata di “humanics” si fonda su una base di alfabetizzazione digitale, tecnologica, e umanistica su cui si innestano abilità cognitive, ovvero pensiero sistemico e pensiero critico, e abilità comportamentali, ovvero imprenditorialità e agilità culturale.
L’ibridazione dei saperi, tecnologici, sociali e umanistici, costituisce il principio alla base della progettazione dei nuovi percorsi formativi universitari. Noi ci crediamo molto, perché siamo consapevoli di essere profondamente immersi nella complessità dell’era tardomoderna. E perché crediamo nella tecnologia, ma prima ancora nell’uomo.
[1] Ulric Beck (2008), Conditio Humana. Laterza, Roma-Bari
[2] Robert Forbes (1958) L’uomo fa il mondo. Man the Maker. Abelard Schuman.
[3] Zigmun Bauman (2002), La società individualizzata. Il Mulino, Bologna
[4] Peter Schlesinger (1978), Putting “Reality” Together. Methuen, Londra
[5] Scott Hartley (2017) The Fuzzy and the Techie – While Liberal Arts Will Rule the Digital World. Houghton Mifflin Harcourt.
[6] Joseph Aoun (2017) Robot-Proof, Higher Education in the Age of Artificial Intelligence, MIT Press.
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