Antipolitica e populismi fra dittatura del pubblico e opinione pubblica
2 maggio 2018
In principio fu la democrazia rappresentativa e l’opinione pubblica assolse alla funzione di individuare credenze ed idee condivise o almeno condivisibili. John Locke ne riconobbe un’utilità immediata nella capacità di controllo delle esigenze di stabilità della società. Tocqueville e poi Lippmann ed Habermas contribuirono a diffondere la consapevolezza dei rischi connessi a letture dominanti e troppo vincolanti dei processi decisionali più rilevanti, rispetto alle quali alte erano le probabilità di considerare come un unicum rappresentazione e percezione. Fu evidente già nel secolo scorso quanto labile fosse il confine fra sfera pubblica, specie quella mediata (per dirla con John B. Thompson), e sfera privata.
Il concetto di opinione pubblica si è andato rimodulando man mano che l’attenzione si è spostata prima sulla capacità di influenza selettiva da parte del pubblico nei confronti dei mezzi di comunicazione di massa (superando la suggestione della teoria del proiettile magico e dell’ago ipodermico, tipica dell’era dei media power) e poi su quelle forme di condizionamento connesse alla fruizione personalizzata di contenuti informativi e non.
La rivoluzione digitale, la società complessa e disintermediata, la debolezza delle varie élites e soprattutto l’idea della democrazia diretta hanno completato l’opera, fino al punto di creare una vera e propria dipendenza dal pubblico. Che è altra cosa rispetto alla opinione pubblica. E che comporta, come effetto collaterale, l’affievolimento del ruolo dell’emittente del processo comunicativo, costretto a rinunciare, sulla base di questo rinnovato contesto di produzione di senso, alla funzione linguistica espressiva, stando alla felice classificazione operata in letteratura da Roman Jacobson. Affievolimento visibile anche se si accoglie dal punto di vista metodologico l’approccio del modello semiotico enunciazionale di Umberto Eco e Paolo Fabbri, secondo i quali il testo mediale è il frutto dell’incontro all’interno del contenuto stesso fra il simulacro dell’enunciatore e quello dell’enunciatario. Il secondo (in quanto ricevente del processo comunicativo) ormai pesa più del primo. Il messaggio non solo non è più il mezzo, ma rischia di essere solo ciò che il pubblico si aspetta che l’emittente dica. E ciò nel perimetro asfittico di un’agenda setting che coincide sostanzialmente con l’agenda dei media e del pubblico e che comprime di molto gli spazi di manovra dell’agenda della politica.
Per comprendere lo stallo di questi giorni occorre partire proprio da qui. Occorre considerare quanto sia di scarso aiuto il fatto che trattative politiche, esplorazioni, aperture e chiusure, vengano concepite, sviluppate ed enfatizzate prevalentemente (se non esclusivamente) a fini di comunicazione e di marketing. È utile chiedersi, infatti, se l’esito di questo processo sarebbe diverso nel caso in cui coloro che sono impegnati nella difficile formazione del governo volessero (e potessero) operare senza esternare ad ogni ora del giorno e della notte. Perché il problema, non dimentichiamocelo, è quasi sempre il senso percepito. E’ l’assenza di rumore fra la codifica e la decodifica del messaggio. È il contrasto alla prospettiva di distorsioni volontarie o involontarie. Il newsmaking politico, del resto, si nutre della ricerca incessante di quell’equilibrio dinamico indispensabile fra fattori ideologici e culturali da un lato e fattori organizzativi dall’altro.
Quella che in molti chiamano (a torto) Terza Repubblica è costretta ad agire più o meno con lo stesso schema in vigore nella Prima. La legge elettorale a forte connotazione proporzionale obbliga, infatti, a dialogare e persino a fare alleanze con forze politiche con le quali si è stati costretti a polemizzare anche aspramente durante tutta la campagna elettorale e, a volte, anche dopo. Oggi, però, a differenza di ieri, tutto è reso notiziabile e mediatizzabile. Si pensi alla difficoltà di dialogo fra M5S e centrodestra per i veti dei pentastellati a Forza Italia e i contro veti e le reazioni di Berlusconi all’indirizzo di Grillo, Casaleggio, Di Maio e Di Battista. Una cosa è parlare con un interlocutore (specie se scomodo) lontano dai riflettori, in una zona d’ombra, che -si badi bene- non è certo terreno opaco ma solo riservato, altra è farla, dovendo accompagnare ad ogni mossa e contromossa non una spiegazione politica (in quanto tale sarebbe articolata), ma uno slogan per tv e radio, un titolo per i quotidiani, un’espressione efficace per un contenuto da destinare alle piattaforme social, secondo il meccanismo ormai consolidato della decontestualizzazione e successiva ricontestualizzazione del messaggio all’interno degli anfratti della fruizione individuale e personalizzata.
L’obiezione a questa impostazione è fin troppo scontata: impossibile -si dirà- frenare le macchine delle società dell’informazione, specie quando esse sono diventate mature, come efficacemente sostiene Luciano Floridi. Ed è vero. Non si tratta, però, di far questo. O almeno non si tratta di far solo questo. In realtà, si tratta di sottrarre le istituzioni e la politica alla logica dell’enfasi mediatica e narrativa, alla sovraesposizione inoperosa ed autoreferenziale, alla tendenza a dare risposte a tutti i costi, anche quando non si ha nulla da comunicare o quando si sa che il silenzio sarebbe la forma più conveniente ed utile per sciogliere i molti nodi ancora presenti. E’ una questione che riguarda non solo la politica, ma ogni forma di esercizio del potere nello spazio pubblico. Mi viene in mente un episodio di alcuni anni fa quando l’allora Procuratore della Repubblica di Tortona confessò di non aver retto più la pressione mediatica e pur di indicare ai giornalisti i responsabili del tragico episodio del lancio di sassi dal locale cavalcavia, avvenuto a dicembre del 1996, consegnò in pasto al pubblico e per il tramite dei giornalisti una soluzione del giallo assai lontana dagli indizi di colpevolezza a sua disposizione. Ovviamente commise un clamoroso errore giudiziario. Fu intellettualmente onesto però tanto da ammettere la gravità della sua condotta di inquirente, dimettendosi dalla magistratura.
E’ cosa positiva agire nello spazio pubblico con la logica dell’accountability e della responsivness (responsabilità e responsività). E’ utile rimanere legati ad un’identità che si è stati capaci di costruire in modo corale attraverso un’interlocuzione continua e costante con i propri elettori. Nel contempo è un errore comunicare consegnando al pubblico (più che all’opinione pubblica) le sole risposte che esso vuol sentirsi dire. Reiteratamente.
Si ripropone qui la differenza esistente nell’articolato alveo dei news values fra interesse e importanza e si ripresenta l’urgenza di una riflessione pubblica intorno ai pericoli esistenti nel far coincidere l’importanza solo con l’interesse diffuso. La Terza non può essere solo la Repubblica dei like su Facebook e su Twitter. La comunicazione dovrebbe essere l’esito di un processo decisionale, non la sua premessa. Il mezzo e non il fine. Abbiamo visto il prezzo che hanno pagato molti politici a voler inseguire una policy comunicativa incentrata in gran parte sulla strategia dell’annuncio. Strategia utile ad assecondare quella dinamica ben focalizzata da Gustave Le Bon nell’intreccio fra individuo e folla, ma anche pericolosa perché poco compatibile con l’esigenza di stabilizzare nel medio e lungo periodo il consenso. Un po’ come accade nel marketing con l’effetto wow, solo che in questo caso non si vendono prodotti, ma si propongono rappresentazioni di linee guida e prove di fattibilità programmatica rispetto alle quali l’effetto sorpresa esaurisce in fretta il suo potenziale comunicativo e persuasivo, scontrandosi molto presto con la realtà.
I protagonisti di questa fase preliminare alla formazione del governo, fase così convulsa, dovrebbero comprendere che si corrono dei rischi enormi a lavare tutti i giorni i panni sporchi fuori di casa, a parlarsi attraverso i mass e i personal media anziché direttamente. Si fanno danni incalcolabili a non sapersi trattenere e contenere e a pensare che tanto alla fine nulla cambia nel giudizio degli elettori, perché le proprie sono scelte tutto sommato reversibili e, in quanto tali, cancellabili con un colpo di spugna dalla lavagna della sfera pubblica mediata. Si perde credibilità a promettere qualcosa e poi a non mantenere l’impegno assunto. E ciò vale a maggior ragione per chi ha l’ambizione di accreditare un nuovo modo di far politica. Trasparenza non significa desacralizzazione della funzione rappresentativa della politica, la quale si nutre anche di piccoli gesti quotidiani, da mantenere riservati nell’interesse del Paese, da proteggere e da preservare dall’assalto dei molti artefici del disegno della strumentalizzazione a tutti i costi.
Attenzione, perché si sta consumando un paradosso. Più la politica riduce gli spazi di manovra, mostrandosi incapace di trovare soluzioni adeguate alla gravità della situazione economica e alla precarietà degli equilibri internazionali, più la televisione e il web ampliano il proprio raggio d’azione, accrescendo l’interesse ad occuparsi di questa materia. Dilatare programmazioni televisive, ampliare contenuti, incrociare piattaforme intorno allo stesso focus tematico significa sì muoversi in controtendenza rispetto alla prospettiva del riduzionismo concettuale (esito peraltro dello slittamento dell’esigenza della semplificazione in direzione della ipersemplificazione), ma significa anche operare forzature. La maturità delle società dell’informazione, di cui parla Luciano Floridi, è una questione di aspettative della popolazione, non solo di sviluppo tecnologico. E le aspettative cambiano soprattutto in base ai luoghi di produzione e di consumo dell’informazione.
Più che concentrarsi su ciò che cambierà ancora, occorre porsi il problema di come gestire ciò che è già cambiato. E’ una navigazione nella realtà ripida e rapida quella che ci propongono il web 2.0 e la società iperconnessa, come la definisce Piero Dominici. Ma proprio quando sei impegnato a contemplare ciò che ti sta passando sotto gli occhi grazie alle opportunità della open society che corri il rischio di imbatterti in ostacoli perigliosi e invisibili, nonostante siano evidenti e di grosse dimensioni.
A cosa alludo? Alla disinformation e alla misinformation, il cui discrimine coincide, come sottolinea Paolo Pagliaro, nel tasso di maggiore o minore intenzionalità nel produrre chiavi interpretative suggestive e svincolate dalle evidenze empiriche. Ma alludo anche alle molte forme di fake news e di post truth di cui parla in rete (e non) la gran parte degli apologeti del senso comune e degli “intellettuali capovolti”, come Frank Furedi già dieci anni fa definì i “filistei del XXI secolo”, ovvero i liberi pensatori, i nuovi opinion maker, gli influencer.
Il problema è quello della credibilità delle interpretazioni e delle forme a disposizione della mediazione simbolica e culturale. Annullare le differenze è un’operazione solo apparentemente più democratica. La conoscenza si trasmette dentro dinamiche relazionali codificate e strutturate, rispetto alle quali la condizione simmetrica è la conclusione di un intero ciclo e processo e non il punto di innesco del flusso di trasmissione di contenuti, valori, modelli ed idee. Il teorema dell’apparir vero più che dell’esser vero incoraggia il corto circuito e alla lunga rende meno performante il perseguimento dell’obiettivo della partecipazione politica, alla quale un po’ tutti tendono e in nome della quale tutti vogliono cambiare.
Serve più l’opinione pubblica che il pubblico per collocare i segni della complessità nelle traiettorie dell’accesso agli stimoli esterni della conoscenza, per orientare l’individuo in direzione della collettività, per contrastare il disegno della “dissocietà” e ridimensionare gli effetti negativi del paradigma dell’antropologia materialistica.
E’ una sfida enorme che passa anche attraverso la capacità di dare una risposta a due interrogativi apparsi centrali nel dibattito pubblico degli ultimi mesi. Il primo: che cosa dobbiamo intendere per rinnovamento della politica? Il secondo: che cosa significa la parola “populismo”?
La sociologia ci insegna che al cambiamento si può arrivare in due modi: o cercando un equilibrio fra interessi contrapposti (paradigma del conflitto), oppure intercettando le soluzioni che sanno adattarsi più rapidamente alle istanze che maturano dal fondo del tessuto sociale (paradigma evoluzionista), in una dinamica bottom-up. In ragione del primo approccio abbiamo assistito allo scontro fra le molte pulsioni a reiterare leadership del passato e le frammentate esigenze di rinnovamento della classe dirigente. Esigenze talmente estremizzate da essere rappresentate, oltretutto, attraverso i codici della rottamazione. In relazione al secondo approccio, i risultati più evidente sono stati tanti. Vediamoli: il ricorso alle primarie (metodo al quale è stata attribuita l’unica patente di qualità per la scelta della componente apicale e di vertice dei partiti); la liquidità del voto (che ci ha abituato nell’era post-ideologica ad un’analisi incessante di flussi elettorali da una parte all’altra degli schieramenti e addirittura da uno schieramento all’altro); l’indebolimento progressivo della forma partito; il ricorso sempre più frequente ai voti di fiducia; lo spostamento del baricentro dal Parlamento al Governo persino nell’attivazione del processo legislativo; l’influenza sempre più crescente delle ragioni della rappresentazione più che di quelle della rappresentanza, fino al tentativo di elevare a paradigma la democrazia diretta e digitale, pur con la fragilità del processo di modellamento teorico conseguenziale a questo postulato. Ha ragione Sergio Fabbrini quando sottolinea che lo stallo di questi giorni è anche il risultato del fallimento di quella strategia di superficie, secondo la quale basta cambiare i politici per cambiare la politica. Ha ragione quando invoca il cambiamento del sistema elettorale e soprattutto l’avvio di una stagione di riforme istituzionali, nonostante l’esito negativo del referendum di fine 2016.
Veniamo ora al secondo interrogativo, ovvero al significato dell’espressione “populismo”. La letteratura scientifica (e non) sull’argomento è assai corposa. Prenderò in esame solo alcune delle argomentazioni più significative fra quelle prodotte da politologi, economisti, sociologi e mediologi. Cominciamo con il sottolineare che il populismo non è una novità dell’ultimo lustro e che sarebbe un errore declinare solo al singolare questa espressione.
Marco Revelli individua in tutte le forme di populismo un denominatore comune: il deficit di democrazia. Un deficit “infantile”, come egli lo definisce, sintomo cioè di una democrazia non ancora compiuta. Ma anche un deficit “senile” (la definizione è sempre la sua), quando cioè cresce il numero di cittadini che non si sentono più coperti dai modelli del mainstream, quando la crisi della rappresentanza si estende fino alla stessa forma democratica. I populismi italiani appartengono a questa seconda categoria. Volendo connettere questo fenomeno alla crisi dello Stato sociale, come fa Tito Boeri, i riflettori non possono non essere puntati sulla perdita di credibilità della classe dirigente, sull’impoverimento del ceto medio e sull’inadeguatezza di un archetipo (anche di natura culturale) che non riesce più a fare da scudo ai molti traumi dovuti alle trasformazioni innescate dalla globalizzazione e dall’innovazione tecnologica. Egli individua anche il peggior nemico del populismo: la quasi totalità dei corpi intermedi. L’elenco è lungo e include partiti tradizionali, sindacati, associazioni, amministrazioni pubbliche, élites di vario genere. E persino il giornalismo, in quanto organizzazione professionale in grado di produrre informazione attraverso procedure e routine burocratiche, come evidenzia Gaye Tuchman. Routine costruite secondo criteri di competenza tematica, linguistica, tecnica e deontologica.
Di “popolocrazia”, anch’essa contraria ad ogni forma di mediazione, parlano Ilvo Diamanti e Marc Lazar. Risentimenti sociali a fronte degli effetti della crisi economica, euroscetticismo e percezione di minacce plurime e sincrone all’identità nazionale sono all’origine, a loro giudizio, del dilagare del populismo in due Paesi europei, saldamente democratici, come Italia e Francia. Tre gli effetti della “popolocrazia”: personalizzazione della politica, presidenzializzazione e medializzazione.
Claudio Cerasa si chiede che strada intraprenderà l’informazione. Saprà mediare fra istanze contrastanti e divergenti o alimenterà, con una scelta di campo a favore di intonazioni assertive (più che doverosamente interrogative) una rappresentazione conforme solo alla volontà della destrutturazione dell’establishment? E con quali argomenti, oltretutto? Stefano Feltri mette in evidenza la frustrazione dovuta all’impressione di non riuscire a far sentire la propria voce (un paradosso, visti i tanti strumenti a disposizione per comunicare nell’era della surmodernité come la definisce Marc Augé) e di non avere più il controllo delle proprie esistenze. Una condizione che incoraggia il “tutti contro tutti” e che suggella come inesorabile l’incapacità della fiducia da associare, gioco forza, sia a persone che a nazioni. E, infatti, il nucleo della rinascita del populismo si spiega, almeno secondo questa visione, con la domanda (un po’ illusoria) di sovranità da parte di tanti e con la messa in discussione del meccanismo della delega, che poi è un tutt’uno con la dinamica della rappresentanza.
Il quadro è oggettivamente complesso. Ai populisti o ai popolocrati, ai teorici dell’antipolitica e ai disintermediatori di professione una sola raccomandazione. Non abbiate paura dell’opinione pubblica. Anche voi potreste essere danneggiati dalla dittatura del pubblico.
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