Ci sono ragioni per essere ottimisti sulla politica estera dell’Unione europea. Ecco quali
16 maggio 2018
Con lo scopo di rendere la politica estera dell’Unione europea più coerente ed efficiente, il Trattato di Lisbona (2009) ha modificato le funzioni istituzionali della figura dell’Alto Rappresentante e promosso l’istituzione del Servizio Europeo per l’Azione Esterna. Il Trattato ha infatti attribuito all’Alto Rappresentante la prerogativa di presiedere il Consiglio Affari Esteri – il forum intergovernativo che riunisce i ministri degli Affari esteri degli Stati membri – e lo ha reso uno dei Vice-Presidenti della Commissione europea. La speranza di fondo era che il “doppio cappello” potesse permettere a chi avesse ricoperto questo ruolo di coordinare gli aspetti inter-governativi della politica estera e di sicurezza dell’Unione – fondati sulla messa in comune di risorse nazionali -, con gli aspetti sopranazionali dell’azione esterna dell’Ue – quelli in cui, cioè, gli Stati membri hanno devoluto fin dalle prime fasi dell’integrazione europea la propria sovranità alle istituzioni dell’Unione.
La politica estera UE tra teoria e pratica
Da allora, l’Unione si è trovata ad affrontare diverse crisi, fra cui le transizioni politiche in Nord Africa e Medio Oriente, l’emergenza migranti, i conflitti politico-militari nel proprio vicinato e le crescenti tensioni con la Russia a est. Eppure, è opinione comune che, nonostante l’entrata in vigore di queste modifiche istituzionali, la risposta di Bruxelles a questi eventi sia stata spesso insufficiente, tardiva o scarsamente efficace.
Così, da brutto anatroccolo del processo di integrazione, negli ultimi anni la politica estera e sicurezza dell’Ue ne è diventato il capro espiatorio. Tuttavia, il numero di critiche ricevute – spesso fondate – non corrisponde ad altrettante analisi del funzionamento di questo settore di policy. Da un lato, le fonti giornalistiche e di analisi politica tendono ad adottare approcci orientati al caso specifico in cui si è verificata o e in corso una determinata crisi, evidenziando in maniera solitamente descrittiva le difficoltà contingenti della politica dell’Unione. Dall’altro, l’elaborazione teorica riguardante l’integrazione in politica estera fra istituzioni e Stati membri dell’Unione è insufficiente e, nella maggior parte dei casi, applicata in maniera limitata. Non è un caso del resto che i risultati delle analisi condotte fino ad oggi adottino visioni dicotomiche riguardo la possibilità o meno che si verifichi l’integrazione fra gli Stati membri e le istituzioni dell’Ue in politica estera e sicurezza. Trattandosi di un’area in cui gli Stati sono stati tradizionalmente restii a devolvere le proprie prerogative sovrane, è infatti opinione diffusa fra gli studiosi di relazioni internazionali e dell’Ue che le possibilità che si verifichi integrazione in aree di “high politics”, come la politica estera e militare, siano minime.
Una nuova analisi
In questo contesto, il mio libro The High Representative and EU Foreign Policy Integration (Palgrave Macmillan 2018) propone una prospettiva diversa sullo studio dell’integrazione dell’Ue, della politica estera europea e del suo funzionamento. Il volume presenta un modello teorico ibrido per esaminare in maniera dettagliata la governance di questo settore, con specifica attenzione all’azione dell’Ue in Kosovo e in Ucraina. La mediazione del dialogo tra Pristina e Belgrado da parte dell’Ue e le politiche di integrazione economica dell’Unione verso lo spazio post-Sovietico e l’Ucraina, prima degli eventi di Maidan e dell’annessione della Crimea, dimostrano chiaramente che le interazioni fra Stati membri e istituzioni dell’Ue possono risultare in diversi tipi di integrazione in politica estera. Questi ultimi non sono necessariamente riconducibili alla tradizionale opposizione fra assenza di politiche integrate o presenza di integrazione con sopranazionalizzazione. Al contrario, se si verifica un allineamento delle preferenze e una convergenza tra Stati membri e istituzioni europee in determinati dossier di policy, gli Stati membri possono impegnarsi a coordinare le proprie politiche nazionali e le proprie risorse per raggiungere obiettivi comuni, anche senza delegare maggiore potere discrezionale alle istituzioni dell’Ue, prima fra tutte la Commissione.
Al verificarsi di tali condizioni, l’Alto Rappresentante non solo può giocare un ruolo chiave per stimolare lo sviluppo di un’azione collettiva della politica estera dell’Ue ma, soprattutto, può conseguire risultati che gli Stati membri non potrebbero mai raggiungere individualmente o nell’ambito di coalizioni multinazionali. Presiedendo il Consiglio Affari Esteri e sfruttando a pieno il proprio ruolo di Vice Presidente della Commissione, questo attore istituzionale può infatti efficacemente coordinare la prospettiva europea con quelle nazionali.
La sopravvivenza del processo di integrazione europea
La struttura istituzionale per la politica estera e sicurezza europea non può funzionare in maniera legittima ed efficiente nei momenti di crisi: in situazioni in cui i costi degli interventi non sono equamente distribuiti fra i vari Stati nazionali, infatti, gli Stati membri esercitano un forte controllo del processo decisionale in quest’area, determinando la risposta dell’Ue – o la mancanza di quest’ultima – ed impedendo de facto all’Alto Rappresentante e alle altre istituzioni dell’UE di agire in maniera autonoma.
I segnali incerti dell’Amministrazione Trump riguardo l’impegno americano in Europa e nel suo vicinato, così come la Brexit, sembrano aver generato un nuovo impeto verso maggiore integrazione della politica estera dell’Ue. Seppure con qualche rallentamento, il rinnovato asse franco-tedesco appare intenzionato a incoraggiare questo processo. Tuttavia, le tensioni riguardo il ruolo della NATO in Europa, anche ma non solo alla luce della creazione della cooperazione strutturata permanente in materia di sicurezza e difesa, e le possibili sovrapposizioni con un maggiore impegno degli Stati membri a livello di Ue in questo settore continuano a produrre inefficienze, stalli e malcontento popolare.
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