LUISS Open ha incontrato Robert J. Gordon, economista della Northwestern University, in occasione del suo intervento all’incontro Le cause della lenta crescita in Europa e in America [1], parte del ciclo di conferenze “Le sfide per l’Europa” organizzato da Jean-Paul Fitoussi per la LUISS School of European Political Economy [2].
LUISS OPEN (LO) – Lei ha scritto che fattori come la disuguaglianza, la crisi dei processi educativi e l’indebitamento degli studenti universitari negli Stati Uniti, ma anche problemi demografici stanno rallentando la crescita economica americana e producendo effetti negativi sulla società. Significa forse che le nuove generazioni si troveranno a vivere in una società più povera e ingiusta?
ROBERT J. GORDON (RG) – Bisogna distinguere tra un’economia lenta e un’economia la cui crescita è negativa. Perché i giovani stiano peggio in futuro, dovremmo avere una crescita economica negativa, ma nessun economista fa una previsione del genere. Vero è, però, che con un’economia stagnante e un tasso di produttività basso, le nuove generazioni non avranno un miglioramento degli standard di vita significativo come quello che i loro genitori hanno avuto rispetto alle generazioni precedenti. Ecco il punto: il tasso di sviluppo per i più giovani sarà inferiore rispetto al passato. Ora, non bisogna dimenticare che i dati relativi alla crescita economica in genere sottovalutano la crescita per una serie di motivi. In primo luogo, gli indici di prezzo danno un’immagine distorta dell’inflazione, perché non considerano i benefici apportati dalle nuove invenzioni. Lo smartphone ne è un esempio perfetto: se il prezzo di una macchina fotografica passa da 300 dollari a zero dollari, perché essa è inclusa in uno smartphone, l’indice dei prezzi non riporta questo passaggio. Dunque il Pil ricalcolato in base all’inflazione risulterà stimato per difetto. Tuttavia, ciò è sempre stato vero, anche in passato. Dunque, anche se correggessimo i dati, il rallentamento dell’economia ci sarebbe lo stesso.
LO – Nel suo libro The Rise and Fall of American Growth [3], lei descrive lo straordinario processo di crescita e sviluppo che si è verificato tra il 1870 e il 1970. Perché oggi non siamo in grado di ottenere risultati simili?
RG – La cosa davvero significativa delle grandi invenzioni della fine del diciannovesimo secolo è che queste invenzioni erano tantissime e si sono verificate quasi allo stesso tempo. C’è stato, ad esempio, l’impatto “multidimensionale” dell’elettricità, che ha prodotto luci elettriche, macchinari elettrici, ascensori, metropolitane, grattacieli, elettrodomestici. Tutto ciò ha avuto effetti positivi non solo sui metodi di produzione, ma anche per la vita domestica di tutti i giorni: lavatrici, asciugatrici, frigoriferi, acqua corrente. Pensate a come le faccende domestiche siano state rivoluzionate rispetto a quando, ad esempio, bisognava portare l’acqua in casa in barili, o lavare tutti i panni a mano, attività che oggi possiamo svolgere in un attimo. Naturalmente questi cambiamenti si sono verificati anche in molti altri settori, come la sanità, con il miglioramento delle aspettative di vita che è stato due volte più veloce nelle prima metà del ventesimo secolo rispetto alla seconda metà. Anche le condizioni lavorative sono state rivoluzionate, tanto che le nostre società sono passate dall’essere rurali (nel 1870 la metà della popolazione americana viveva nelle fattorie) all’urbanizzazione di massa – e nelle città si è produttivi tutto l’anno, perché il lavoro non dipende più dalle stagioni e dalle condizioni climatiche o meteorologiche. Tutto questo è successo in pochissimo tempo, a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo e il risultato di questa trasformazione è visibile, per quanto riguarda gli Stati Uniti, nei dati sulla produttività tra il 1920 e il 1970. In Europa, a causa delle guerre, gli anni di maggiore produttività sono stati ritardati al periodo 1945-1975, quelli che i francesi chiamano i Trente glorieuses années. Negli ultimi trent’anni abbiamo avuto la rivoluzione digitale, che alcuni hanno definito “terza rivoluzione industriale”, ma il suo impatto sulle vite di tutti i giorni delle persone comuni è stato minore rispetto alle invenzioni precedenti. La rivoluzione digitale ha cambiato il mondo degli affari, facendolo passare dall’analogico al digitale, dalla carta e dalle macchine da scrivere, ai file e ai flatscreen e ai laptop. Ma questo cambiamento è già avvenuto da dieci anni. La mia ipotesi principale sul perché negli ultimi dieci anni la produttività non sia migliorata, ma anzi sia rallentata, è che abbiamo già conseguito tutti i benefici possibili dalle recenti invenzioni della rivoluzione digitale. La transizione dagli archivi cartacei al cloud è già avvenuta, ma non ci sono state altre invenzioni. Gli smartphone sono utili per i consumatori, ma non creano produttività, non generano quel tipo di effetti che permettono alle compagnie di pagare stipendi più alti.
LO – Come bisogna rispondere a questa carenza di invenzioni “utili”? Dovrebbe essere lo Stato a farsi promotore dell’innovazione, con l’investimento di risorse e politiche mirate?
RG – Prendiamo le innovazioni che sono state apportate dalla rivoluzione digitale negli ultimi trent’anni: in esse c’è stata una fruttuosa collaborazione tra l’innovazione dei privati e gli interventi pubblici. Ad esempio, Internet è stato sviluppato dal Dipartimento della Difesa americano, che è un organismo pubblico. La ricerca avviata dal governo ha reso possibile lo sviluppo dell’era di internet negli anni Novanta, molto prima di quanto sarebbe stato successo altrimenti. Dobbiamo fare affidamento su finanziamenti pubblici anche per quanto riguarda il sostegno per la ricerca medica e scientifica, i cui risultati, per quanto utili, non attrarrebbero investimenti da compagnie private. Pertanto, serve sempre una collaborazione tra società private disposte a innovare, da una parte, e il sostegno governativo per il bene pubblico dall’altra.
LO – Quali interventi politici sono più necessari per riavviare un’economia in contrazione, per promuovere la crescita e la produttività e per eliminare quei fattori che invece le rallentano?
RG – Credo sia importante concentrarsi su due aspetti dell’educazione. Il primo è mettere a disposizione sussidi per la riqualificazione di quanti hanno perso il lavoro a causa della concorrenza estera. È noto che la crescita della Cina ha fatto perdere il lavoro a molti lavoratori in fabbriche che sono state schiacciate dalla concorrenza cinese o di altri Paesi asiatici. Questo tipo di lavoratori dovrebbe ricevere un sostegno maggiore, per riqualificarsi o trasferirsi in altre città e regioni dove le opportunità di trovare un impiego siano maggiori. Il secondo aspetto (in particolare nel contesto americano) riguarda gli stanziamenti, che dovrebbero essere molto maggiori, per i bambini in età pre-scolare che crescono in povertà o in nuclei familiari composti da un solo genitore (spesso le madri). Lo Stato dovrebbe intervenire non solo per l’educazione pre-scolare di questi bambini, ma anche con sostegni specifici per i genitori: i bambini che provengono da famiglie povere, infatti, arrivano già alle scuole elementari con un enorme deficit di vocabolario rispetto ai loro coetanei appartenenti al ceto medio. E poi, negli Stati Uniti abbiamo il problema del costo eccessivo dell’istruzione universitaria, causa di un enorme debito da parte delle nuove generazioni, che pertanto ritarda la formazione di nuclei familiari, i matrimoni e le nascite, perché i giovani sono troppo impegnati a ripagare il debito. Dovremmo invece seguire l’esempio di alcuni Paesi europei e fornire un sostegno finanziario a chi persegue una formazione universitaria. Invece, negli Stati Uniti, il problema del costo eccessivo delle università è stato aggravato dai tagli agli aiuti di Stato alle università statali, che ha fatto sì che il costo dell’istruzione universitaria aumentasse non solo negli Atenei privati, ma anche in quelli pubblici. Molti dei problemi negli Stati Uniti, a dir la verità, andrebbero risolti seguendo l’esempio europeo: non dimentichiamo il caso della sanità pubblica, inesistente negli Stati Uniti e disponibile invece per i cittadini di ogni Stato europeo.
LO – Secondo un’altra corrente di pensiero, proprio l’innovazione potrebbe causare problemi gravi in futuro. L’automazione potrebbe far perdere posti di lavoro, mentre la tecnologia e la digitalizzazione stanno mostrando aspetti inquietanti, ad esempio nel modo di trattare i dati personali e la privacy. Non corriamo il rischio, perseguendo una maggiore innovazione, di incorrere in danni più grandi?
RG – Credo che simili rischi dell’innovazione siano largamente esagerati. Certo, dobbiamo avere sistemi che ci mettano al riparo da hacker e criminali online, che sono un effetto collaterale inevitabile dell’innovazione tecnologica già verificatasi, come dicevo, dieci o venti anni fa. Anche la minaccia ai posti di lavoro da parte di robot e intelligenze artificiali mi sembra sovrastimata. Abbiamo prove dei limiti in cui i robot incorrono quando tentano di emulare attività umane: molti lavori richiedono un livello di destrezza manuale che i robot semplicemente non hanno. Le intelligenze artificiali stanno, è vero, sottraendo lavoro, ad esempio, alle agenzie di viaggio o ai servizi per la clientela, in cui le persone possono effettivamente essere sostituite da voci computerizzate. Ma se guardiamo ai Paesi scandinavi, alla Germania o anche al Regno Unito, troviamo comunque mercati del lavoro in perfetta salute, con tassi di disoccupazione bassi. Non ci sono prove nella storia che gli sviluppi della tecnologia abbiano causato la perdita di lavoro.