Il Maggio ’68 compie 50 anni. Ora è il momento di contestare la contestazione (ascoltando i suoi illustri avversari)

24 maggio 2018
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Quello che segue è l’intervento di apertura pronunciato al convegno internazionale “Il Sessantotto e i suoi nemici”, voluto dalla Fondazione Craxi. Testo raccolto dalla redazione di LUISS Open.

Quest’anno cade il cinquantenario del 1968. In Italia e in altri Paesi, a dire il vero, non è capitato di ascoltare quella fortissima retorica che era facile aspettarsi, fatta eccezione ovviamente per alcuni giornali, case editrici e sparuti intellettuali da cui era scontato attenderselo. Anche rispetto a precedenti anniversari del 1968, la retorica è stata di minore intensità. Ciò è dovuto in parte al fatto che i giovani, i “millennials” come si dice oggi, non solo sono poco o nulla interessati a quanto accadde quell’anno, ma spesso non hanno nemmeno idea di cosa sia stato. Da una parte, d’altronde, per i ventenni di oggi discutere del ‘68 sarebbe come se i ventenni del 1968 si fossero divisi e accapigliati sull’interventismo o il non interventismo ai tempi della Prima Guerra mondiale di 50 anni prima. Non solo. In questo periodo, alcune università francesi sono occupate per protesta contro le riforme del Presidente della Repubblica Macron, e la stampa d’Oltralpe è andata a intervistare alcuni di questi giovani occupanti; i giornalisti ovviamente non si sono fatti sfuggire l’occasione di sottolineare la coincidenza di queste proteste di Maggio con il più celebra Maggio del 1968, eppure alla domanda “voi sapete chi era Daniel Cohn-Bendit?”, si sono spesso sentiti rispondere: “Non l’ho mai sentito”. Un’altra spia interessante è quella che si è accesa in Italia, dove i professori universitari hanno annunciato l’intenzione di scioperare nelle prossime sessioni, mentre l’Unione nazionale degli Studenti ha chiesto ai docenti di non ricorrere allo sciopero perché questo non sarebbe il metodo più adatto. Ecco segni diversi, ma convergenti, del fatto che stia definitivamente saltando la memoria storica del 1968.  Sia inteso: non è detto, contrariamente a una certa retorica, che la memoria sia di per sé positiva. Una ricostruzione in senso ideologico, infatti, non fornirebbe comunque un contributo utile al dibattito storiografico o della società civile.

Certo è che è arrivato il momento di storicizzare l’evento, il che non vuol dire collocarlo in uno spazio neutro in cui si riconosce che tutti hanno avuto un po’ di ragioni, tutti hanno avuto un po’ di torto, eccetera. No, non si possono mettere sullo stesso piano quelli che hanno messo a ferro e fuoco gli atenei, e poi magari hanno preso le armi, con coloro che fin dall’inizio capirono che il 1968 poteva avere una deriva e che tale deriva non avrebbe portato a nulla di buono. Noi abbiamo deciso di dedicare questa giornata di studi a tali figure, intellettuali o governi che fossero, in Italia ma anche in Europa e Stati Uniti.

Queste figure non sono maledette, ma certo un po’ dimenticate, e a torto perché il loro pensiero sul 1968 è originale e interessante. Per esempio Nicola Matteucci aveva capito chiaramente una delle tante nature del 1968, quando lo definì “un fenomeno populista”. Oppure come non vedere che il 1968 era alla radice di un prolungato attacco alla democrazia formale, come capirono i tedeschi Hans Maier, Robert Spaemann, Friedrich Tenbruck e Hermann Luebbe? Come non riprendere le letture di Augusto Del Noce, per cui il 1968 fu l’effetto – più che la causa – dei processi di secolarizzazione della società opulenta? C’è da notare un’altra cosa: né Matteucci, né Del Noce, né i tedeschi che ho citato, furono nei primi tempi pregiudizialmente ostili alla contestazione. Così come non lo furono gli intellettuali democratici torinesi o Don Giussani o Raymond Aron, il cui libro “La Révolution introuvable” – scritto a caldo in quei mesi – rimane uno dei testi più straordinari per capire il 1968. Per molti di loro, il movimento era invece il segnale di una crisi politica e di una crisi della cultura e delle civiltà sottostanti che avrebbe richiesto un soprassalto delle stesse cultura e civiltà. Quasi tutti però si resero conto che la contestazione non era la soluzione al problema, anzi per molti versi essa era parte del problema. Nata sulla spinta della rivendicazione della “libertà libertaria”, come diceva Aron per distinguerla dalla “libertà liberale”, tale contestazione avrebbe accentuato gli elementi di dissoluzione dell’ordine e dei valori e avrebbe portato all’affermazione della dittatura dell’Io narcisista. In tal senso le pagine di Matteucci, e soprattutto quelle di Del Noce, anticipano le analisi sul 1968 di Régis Debray, di Christopher Lasch, di Gilles Lepovetsky e di Marcel Gauchet. In altre parole il ’68, esaltando il “noi” con parole d’ordine già allora desuete e appartenenti essenzialmente al lessico marxista-leninista, ha in realtà portato alla dittatura dell’Io. Per dirla con Debray, si è andati in California passando per Pechino, per la Pechino di Mao.

 

Le reazioni dei governi europei al ’68 e il caso Craxi

Ho citato soprattutto autori francesi perché, pur essendo il ’68 un evento mondiale e non solo europeo, in Francia esso più che altrove fu l’occasione per una riflessione profonda sulla modernità e sui destini della società occidentale. Poi il ’68 in Francia è degno di particolare interesse per un’altra ragione: l’intensità e al tempo stesso la brevità con cui si svolse, la sfida che rappresentò al sistema politico, e la capacità del sistema istituzionale-politico non solo di reagire ma anche di assorbirne le spinte, depotenziandole. In Italia, per esempio, tali spinte che provenivano dalla contestazione non furono affatto depotenziate, anzi. Spicca fra gli altri anche il caso tedesco, perché dal 1969 fu al potere il primo Governo della Repubblica federale tedesca a guida socialdemocratica, quello di Willy Brandt, le cui risposte verso i movimenti non furono affatto indulgenti.

Così come nient’affatto indulgente fu, nel nostro Paese, Bettino Craxi. Il rapporto del leader socialista italiano con il 1968 è piuttosto originale. Craxi infatti capì subito la natura del ’68. Mi limito per ora a due citazioni. Quando, nel marzo 1968, il Movimento studentesco di Milano occupò il Consiglio comunale del capoluogo meneghino, con Craxi allora consigliere comunale e assessore, egli disse: “Si profila una vena pericolosa che va intravista e affrontata con i metodi dell’argomentazione, del dibattito, della persuasione e probabilmente dell’esempio, perché – se questa contestazione avviene – probabilmente è anche perché la democrazia ha i suoi torti”. Per “democrazia” Craxi intendeva la “democrazia rappresentativa” e il sistema dei partiti di allora. Quanto è attuale questa frase? Oppure, qualche mese dopo, in campagna elettorale, sempre il Movimento studentesco milanese minacciò di voler impedire di parlare in piazza a Pietro Nenni, storico dirigente socialista costretto alla clandestinità durante il fascismo. Il loro slogan era, figuriamoci, “Nenni fascista!”. La risposta di Craxi – in un articolo anonimo, ma a lui attribuibile, sull’edizione milanese dell’ «Avanti!» – fu stentorea: “Questa banda di pseudo-rivoluzionari con la fuoriserie, che non crede nella democrazia, che non crede nelle riforme, che da un mese all’università commette violenze private in nome di ideali privati, questi giovani teppisti della Milano bene che tentano di sopperire alla confusione ideale e all’impotenza pratica con una vita privata scandalosa, ripromettendosi di irrompere armati al comizio di Pietro Nenni, vengano e avranno quello che si meritano”.

L'autore

Marco Gervasoni insegna Storia contemporanea all’Università del Molise e Storia comparata dei sistemi politici alla LUISS. È autore di numerosi saggi ed editorialista del Messaggero.


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