Contro i nazionalismi europei è necessaria un’unica geopolitica della migrazione in Europa
19 giugno 2018
Mentre l’immigrazione si globalizza, le politiche che la governano sono sempre più nazionali. Una verità confermata dal recente scontro tra l’Italia e il resto dell’UE sulle sorti degli immigrati salvati dalla nave Aquarius di proprietà della Ong Sos Mediterranée. Al netto della cronaca, ormai ai più arcinota, è forse utile sottolineare la valenza geopolitica di una querelle che, oltre a dividere e contrapporre buona parte degli Stati europei, ha messo in tutta evidenza le contraddizioni della perseveranza nella gestione nazionale di un fenomeno globale. Per capire di cosa parliamo, occorre analizzare le due “facce” della vicenda Aquarius: quella degli immigrati e quella dei paesi ospitanti.
I primi sono 629, provenienti da 26 paesi diversi, in maggioranza sudanesi, nigeriani ed eritrei. È presumibile sostenere che si siano affidati, con elevatissimi costi economici e non solo, al sofisticato network della criminalità organizzata internazionale che gestisce in regime di monopolio il traffico illegale di esseri umani dal continente africano a quello europeo. In particolare, per arrivare dagli Stati d’origine a intraprendere la rotta del Mediterraneo centrale, che dalla Libia porta via mare all’Italia, hanno seguito probabilmente due principali vie di migrazione. Coloro che partono dall’Africa occidentale per raggiungere i porti libici – come già sostenuto in passato da uno studio dell’Organizzazione Medici per i Diritti Umani – intraprendono per lo più la cosiddetta rotta Occidentale-Est che ha come snodo principale il Niger, in particolare le cittadine di Agadez e Madama. Mentre gli originari dell’Africa orientale percorrono la rotta Orientale-centro che ha come centro nevralgico di passaggio il Sudan.
A prescindere dalle origini e dagli itinerari, nessuno dei 629 naufraghi salvati in mare, avrebbe mai incrociato i volontari dell’Aquarius senza il cruciale, quanto spietato, supporto della rete transnazionale dei traffickers. A differenza, però, dei criminali che collaborano fra loro per lucrare sulle speranze di migliaia di disperati, gli Stati obbligati a riceverli non fanno lo stesso. Tant’è che nella notte tra il 9 e il 10 giugno scorso, i 629 naufraghi, distribuiti in sei diversi gommoni, quando si sono ritrovati alla deriva al confine tra le acque territoriali libiche e maltesi sono stati salvati non dai funzionari dell’Agenzia Europea della Guardia di Frontiera e Costiera (precedentemente conosciuta come Frontex) ma dai volontari del mare, animati da nobilissimi intenti che, però, poco hanno a che fare con la governance di un fenomeno strutturale, di portata globale.
Deve esser chiaro, però, che la soluzione non può e non deve essere quella di “contrastare” chi le vite in mare meritoriamente le salva: serve in Europa – vale la pena di ripeterlo sino alla noia – una politica comune dell’immigrazione e dell’asilo. E la mancanza di ciò non risiede nella cattiva volontà di un qualche burocrate europeo, ma nella persistenza di ben 27 politiche nazionali diverse e in qualche caso contrastanti. La cronaca degli ultimi giorni lascia tragicamente, infatti, intravedere un ritorno ai nazionalismi e alla chiusura delle frontiere non dissimile da quello registrato a cavallo tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Una nota positiva, tuttavia, arriva dalla storia degli Stati Uniti che nel 1889, incalzati delle enormi ondate di immigrati che dall’Europa sbarcavano ad Ellis Island, decisero, mettendo fine agli inefficienti nazionalismi dei singoli stati, di unificare e delegare (grazie alla sentenza della Corte Suprema Chae Chan Ping versus United States) tutte le competenze sull’immigrazione nelle mani del potere federale centrale.
Il nuovo libro di Alfonso Giordano, Limiti. Frontiere, confini e la lotta per il territorio, è in uscita il 12 luglio per LUISS University Press
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