Falce, martello e innovazione. In cosa crede davvero Xi Jinping (e perché non passerebbe l’esame di marxismo-leninismo)
27 giugno 2018
Quando i visitatori arrivano per la prima volta nella grande metropoli di Shanghai, dal viale Bund osservano i grattacieli sulla riva opposta del fiume Huangpu e non possono fare a meno di chiedersi come sia possibile, per un Paese comunista considerato dall’Occidente il nemico archetipico per buona parte della Guerra fredda, apparire ora come un qualsiasi altro fiorente centro capitalista globale. I visitatori vedranno pochi segni, forse nessuno, dai quali desumere che il Partito comunista esercita ancora un monopolio assoluto sul panorama che hanno davanti. Se guardassero con molta, molta attenzione, potrebbero scorgere una rara falce e martello, oppure qualche sporadico slogan affisso sul muro di un edificio pubblico. Anche questi, però, ormai non sembrano più dichiaratamente politici.
Che l’ideologia comunista abbia ancora una sua importanza nella Cina odierna è un concetto difficile da afferrare. Di certo, se un’ideologia esiste deve essere il capitalismo basato perlopiù sul modello occidentale, seppur privo dell’ordine politico lì dominante al quale si accompagna. Eppure, malgrado questo clima vibrante e “mercatizzato” che si percepisce in tutta la Cina, sotto il comando di Xi le idee comuniste hanno fatto ritorno. C’è molta più attenzione adesso verso i quadri del partito, affinché apprendano i nuovi sviluppi del marxismo-leninismo. La costruzione del partito è diventata una priorità. Le sue scuole, da quella centrale di Pechino (nota per intero con il nome di Scuola di partito del comitato centrale del Partito comunista cinese, o anche come Scuola centrale di partito) a quelle di Pudong a Shanghai, Jinggangshan a Jiangxi, e altrove in tutto il Paese, organizzano programmi molto seguiti per trasmettere i messaggi ideologici più recenti. Per essere uno Stato liquidato spesso come un Paese che persegue obiettivi difficili e pragmatici, prestando un’adesione soltanto formale ai vecchi tropi marxisti, sembra proprio essere uno sforzo enorme da dedicare a qualcosa che apparentemente ha così scarsa importanza. Ancor più straordinaria è la quantità di tempo e di impegno che i leader dell’élite come Xi hanno profuso per promuovere queste idee ed escogitare nuovi termini ideologici. Con così tanti problemi molto più pressanti, a chi vive fuori dalla Cina sembra davvero strano che egli abbia usato una così ampia parte del suo capitale politico per inserire il Pensiero di Xi Jinping nella costituzione del partito durante il congresso dell’ottobre 2017. Perché questo concetto apparentemente così arcaico è stato considerato tanto importante?
In sostanza, la ragione dell’importanza del Pensiero di Xi Jinping è la seguente: in Cina, Paese estremamente complesso e virtualmente frammentato, questo consenso ideologico è stato conquistato a duro prezzo e, una volta raggiunto l’accordo, lo si deve difendere bene. Ottenere un consenso su un unico sistema di pensiero non è impresa da poco per l’élite politica, né questione di un giorno e neppure di un anno. Occorrono decenni, e che si versino molto sangue, molto sudore, molte lacrime. Ottenere un ampio consenso tra i più importanti leader del Partito comunista e dallo Stato da esso governato implica l’adozione di un linguaggio comune. Può darsi che si tratti di un linguaggio che sta a cuore soltanto a loro, e che soltanto loro comprendono, ma, quanto meno per loro, quel sistema funziona un po’ come il latino medievale, che costituì una sorta di lingua comune nell’Europa frammentata per i membri di un’élite che, in caso contrario, non sarebbero stati in grado di comunicare con facilità. La maggior parte del popolo cinese crede oggi nel marxismo-leninismo? Quasi sicuramente no. Tuttavia, accetta che i suoi leader politici si schierino dalla parte di questo sistema di valori e, finché avranno un Paese ricco e forte, e il benessere materiale che ne deriva, tollereranno l’insolito sistema di valori del partito.
Più difficile ancora è capire se, in fondo in fondo, un leader come Xi Jinping creda davvero nel marxismo-leninismo. I leader che lo hanno preceduto, per esempio Deng Xiaoping, suonavano quasi snob quando liquidavano come eccessivi gli studi teorici dell’ideologia. Per loro, era questione di adattare alcuni princìpi cardine di base e attuarli. Da questo punto di vista, era simile a una pratica religiosa, un sistema di princìpi che si rivolgeva al lato emotivo e razionale della popolazione fornendo un quadro di riferimento per il cambiamento, l’impegno e l’azione. Per i leader venuti dopo come Xi, dobbiamo considerare se abbiano avuto una vera scelta al riguardo del sistema di valori che hanno ereditato. Come detto in precedenza, negli anni Settanta Xi fece domanda di iscrizione al PCC molte volte prima di esservi ammesso. Quello non fu necessariamente il segno della sua fervente fede nell’ideologia, bensì il riflesso del fatto che farne parte garantiva se non altro una certa sicurezza e un futuro in un’epoca in cui entrambe queste due cose scarseggiavano. Entrare nel partito era l’unica scelta possibile. Di conseguenza, da questo punto di vista non fu vera scelta. I funzionari che fecero carriera nei decenni seguenti non dovettero mai prendere decisioni di rilievo nei confronti del loro orientamento politico. Erano membri del partito, e accettarne l’ideologia rientrava nelle loro responsabilità.
Nella storia recente del Paese, i princìpi del partito sono stati messi in discussione in rarissime occasioni, e quando negli anni Ottanta divamparono le discussioni sul ruolo del mercato, che implicava questioni di scelte, Xi non aveva ancora un grado abbastanza alto da esserne coinvolto. Anche allora, la controversia riguardava le modifiche all’ideologia di partito, più che essere una resistenza o un’opposizione a essa. Per Xi, quindi, in buona parte è stata questione di accettare l’ideologia. L’innovazione era permessa soltanto se assolutamente necessaria ed esclusivamente a certe rigidissime condizioni. La cosa certa, tuttavia, è che per il partito – per la sua cultura, la sua identità, il suo modus operandi – quell’ideologia doveva essere presente. Xi Jinping, di conseguenza, crede nell’ideologia e nei suoi valori, ma presumibilmente non supererebbe quell’esame intermedio sugli elementi fondanti del marxismo-leninismo che talvolta è obbligatorio presso le scuole di partito o nelle università. La cosa, del resto, non dovrebbe stupire. È improbabile che Theresa May, il primo ministro della Gran Bretagna mentre scrivo queste righe, sarebbe in grado di dissertare granché sulla filosofia classica conservatrice dell’èra di Burke. I leader dei Paesi sono esperti: loro agiscono, altri pensano.
Per essere uno che ha messo in così grande rilievo l’importanza del partito, il ripristino dello status morale del Paese e la sua funzione politica nella società, Xi conferisce somma importanza funzionale all’ideologia. Essa è uno strumento utile a creare l’indispensabile sensazione di unità e determinazione. L’ideologia si colloca al cuore dell’identità degli ottantotto milioni di membri del PCC – a prescindere da qualsiasi cosa siano o possano essere, se non altro tutti credono di dover credere in qualcosa – e si sentono infatti dire in che cosa devono credere. Poiché sono seguaci fedeli, una volta proclamate le disposizioni non le discutono.
Alla fine del 2017, quanto meno sulla carta, il Partito comunista cinese credeva nel Pensiero di Mao Zedong, nella Teoria di Deng Xiaoping, nella Teoria delle tre rappresentanze,[1] nello Sviluppo scientifico e nel Pensiero di Xi Jinping. Si tratta di un elenco di opzioni alquanto complesso da tenere a mente. Il Pensiero di Mao Zedong è relativamente facile da descrivere e prevede la “sinizzazione” del marxismo così da essere conforme alle caratteristiche della nazione cinese. La Teoria di Deng Xiaoping è l’adozione del socialismo di mercato, in sostanza l’accettazione di una forma più pragmatica di marxismo-leninismo. Le Tre rappresentanze e lo Sviluppo scientifico sono semplici sviluppi dell’epoca di Deng. Le prime permisero agli imprenditori del settore non statale di entrare nel partito, mentre il secondo puntò a un tasso di crescita più bilanciato e centrato sul popolo. Il Pensiero di Xi Jinping si colloca da qualche parte nel solco della grande tradizione ideologica comunista cinese basata su questi valori di fondo.
Il testo proposto è tratto dal libro L’amministratore del popolo. Xi Jinping e la nuova Cina, che sarà pubblicato il prossimo 5 luglio da LUISS University Press.
[1] Secondo la Teoria delle tre rappresentanze, esposta per la prima volta da Jiang Zemin nel 2000, il potere e la forza del Partito comunista cinese derivano dalla sua capacità di rappresentare le esigenze delle forze produttive più sviluppate del Paese, di dare voce agli orientamenti culturali più avanzati e di garantire gli interessi degli strati più ampi della popolazione. [N.d.T.]
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