La produttività perduta dell’industria italiana (che ora angoscia anche il nord-est)

2 luglio 2018
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La produttività negli ultimi anni ha rallentato in tante economie del mondo. Per l’Italia, però, la frenata è cominciata molti anni fa. Nel nostro Paese, la produttività, intesa dall’Ocse come il Pil per ora lavorata, fra il 2010 e il 2016 è aumentata solo dello 0,14% annuo, il dato peggiore dopo quello della Grecia. Non solo: la stagnazione della produttività nei nostri confini è iniziata almeno 25 anni fa. Fabiano Schivardi, docente ed economista della LUISS, ne ha appena scritto in uno studio intitolato “The productivity puzzle and misallocation: an Italian perspective”.
Marco Valerio Lo Prete, per LUISS Open, gli ha fatto alcune domande. Innanzitutto, perché e quando nasce questa triste eccezione italiana?

Fabiano Schivardi – Alla metà degli anni 90 si registra un primo calo della produttività italiana rispetto a Paesi europei come la Francia e la Germania. Se nei Paesi in via di sviluppo la crescita della produttività deriva principalmente dall’accumulazione di capitale, nei Paesi avanzati conta di più la “produttività totale dei fattori”, o TFP nel gergo degli economisti, che misura il progresso tecnologico, l’organizzazione delle aziende, l’introduzione di nuovi prodotti, eccetera. Negli anni 50 questa misura della produttività cresceva a tassi elevati in Italia, addirittura al 5% annuo come si vede dal grafico qui sotto, poi il ritmo si è progressivamente ridotto arrivando a zero nel 2005. Una convergenza del tasso di crescita della produttività totale dei fattori con quello degli altri Paesi, cioè attorno all’1-1,5% anno, sarebbe stato fisiologico. L’Italia invece è arrivata praticamente a zero.

 

figura 3 schivardi

 

LUISS OPEN – Quali sono i settori dell’economia italiana in cui la produttività perde più terreno, riducendo la competitività del nostro Paese?

Fabiano Schivardi – Dalla nostra ricerca emerge in realtà che il problema dell’Italia non è tanto quello di essere specializzata in settori sbagliati, nei quali la produttività è calata maggiormente. La produttività infatti ha segnato il passo un po’ in tutti i settori, almeno fino a 3-4 anni fa, se si escludono alcuni comparti come quello delle telecomunicazioni. Quello che noi dimostriamo con questo nostro studio è che la dispersione della performance della produttività all’interno di un singolo settore produttivo è maggiore della dispersione media tra settori diversi. Cosa vuol dire, in concreto? Che anche nel settore tessile, per esempio, dove oggi avere successo è più difficile per la vastissima competizione – anche sui costi – a livello mondiale, in realtà ci sono aziende italiane che vanno molto bene. Che fanno innovazione di prodotto, sviluppano il marketing e che innovano anche in tutto ciò che non è tecnologia.

Due sono i canali per far crescere la produttività: a livello di singolo operatore, l’azienda migliora la propria produzione industriale, per esempio gestendo l’impianto in un modo più efficiente; a livello sistemico, invece, un Paese dev’essere in grado di spostare le risorse dalle imprese meno produttive – le cosiddette imprese zombie – a quelle più produttive. Ecco, in Italia non ha funzionato questo secondo processo di continuo e automatico spostamento delle risorse dalle aziende meno efficienti a quelle più efficienti. La misura tipicamente utilizzata per misurare il livello di efficienza allocativa di un sistema economici è la dispersione intra-settoriale della produttività: un sistema efficiente riduce la dispersione proprio attraverso il processo di riallocazione dei fattori dalle imprese poco produttive alle più produttive. Come si vede nel grafico qui sotto, in Italia la dispersione è aumentata, un’indicazione del fatto che l’efficienza allocativa è peggiorata.

 

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LUISS Open – Come vi spiegate questa battuta d’arresto della produttività e della competitività internazionale del Paese?

Fabiano Schivardi – Il contributo originale del nostro studio riguarda il “come” di questo shock di produttività più che il “perché”. Abbiamo dimostrato infatti che la cattiva allocazione delle risorse ha giocato un ruolo fondamentale nel frenare la crescita della produttività italiana. Se l’efficienza dell’allocazione di queste risorse fosse rimasta ai livelli del 1995, per esempio, la produttività aggregata dell’Italia nel 2013 sarebbe stata più alta del 18% rispetto al livello effettivamente raggiunto allora. Detto ciò, posso avanzare qualche ipotesi sul “perché” di questa battuta d’arresto. Il Paese essenzialmente cresce per tutti gli anni 60 e fino agli 80, poi si pianta. Secondo un filone di pensiero, sarebbero peggiorate soprattutto le “dotazioni di base” dell’Italia: scuola, infrastrutture fisiche e materiali, capacità imprenditoriali, grado di apertura dei mercati, eccetera. In realtà, se si fa eccezione per la Pubblica amministrazione, è difficile sostenere che in tutti questi ambiti si siano fatti passi indietro. I mercati dei prodotti, per esempio, oggi sono molto più competitivi di 15 anni fa. Anche nel mercato del lavoro sono stati fatti passi avanti. Tante delle cosiddette “riforme strutturali” sono state approvate. Io propendo piuttosto per l’ipotesi che in questi ultimi 20 anni sia cambiato il mondo attorno a noi e che le nostre caratteristiche produttive – che nel mondo precedente andavano bene – oggi non vadano più. Parlo del fatto che le nostre imprese sono perlopiù piccole e a gestione familiare, del fatto che la nostra classe imprenditoriale è stata ed è mediamente poco istruita: questi imprenditori-artigiani potevano eccellere prima, quando l’Italia era in qualche modo la Cina di oggi, ma ora non più. Oggi fare l’imprenditore è diventato più complicato e abbiamo bisogno di aziende che sappiano gestire questa complessità. Per dirla in altre parole, prima si competeva molto all’interno del capannone, nell’organizzazione e nella gestione dello stesso. Oggi invece la competizione con gli altri si svolge soprattutto in attività che avvengono “prima del capannone”, parlo per esempio di design e innovazione di prodotto, o “dopo il capannone”, penso al marketing, all’espansione sui mercati esteri, alla cura del cliente.

 

LUISS Open – La stampa tedesca, di recente, ha dato conto di questo suo studio con un lungo articolo sulla FAZ, così intitolato: “Anche il Nord industriale dell’Italia soffre”. E’ una lettura corretta della vostra analisi?

Fabiano Schivardi – Le sorti delle imprese, in un contesto internazionale più complesso, diventano maggiormente volatili: in un mondo in cui gli shock sono più frequenti, le capacità di adattamento delle singole imprese e del sistema nella sua interezza devono aumentare. Perciò devono crescere la capacità di sottrarre risorse lì dove sono meno utili e la capacità di allocarle rapidamente dove invece sono più necessarie. Secondo i nostri calcoli, la dispersione della produttività totale dei fattori sale nel nostro Paese soprattutto nei settori maggiormente innovativi e in crescita. E’ nelle zone alla frontiera tecnologica, infatti, che gli shock sono più forti e frequenti, e dunque è qui che soffriamo di più in ragione di un’allocazione poco efficiente delle risorse. In conclusione, anche se oggi sono in condizioni medie migliori rispetto al resto d’Italia, si può dire che il nord e la grande impresa devono affrontare la loro partita più difficile.


LUISS Open – Quali sono le implicazioni di policy che possiamo trarre da questi risultati?

Fabiano Schivardi – Ce ne sono diverse, e magari potremmo parlarne più diffusamente in un prossimo articolo, soprattutto per quel che riguarda le imprese, il capitale e le competenze. Per ora, noto che la crescente inefficienza allocativa dimostra che politiche che tendono a mantenere i lavoratori in imprese “zombie” hanno costi notevoli dal punto di vista della produttività. Rispetto all’ambiente più stabile del secondo dopoguerra, i sistemi economici moderni richiedono una continua riallocazione di risorse, che va facilitata e accompagnata dallo Stato, piuttosto che ostacolata. Il Jobs Act si è mosso proprio in questa direzione, ad esempio con l’obiettivo di sostituire la cassa integrazione (tipico strumento che protegge il posto di lavoro, anche quando non più sostenibile) con un sussidio di disoccupazione universale (che protegge il lavoratore nei periodi di transizione fra lavori). Piuttosto che smontarlo, sarebbe necessario completarne il disegno, investendo sulle politiche attive per il lavoro e la formazione. Carriere lunghe e con cambiamenti frequenti e profondi hanno una chiara implicazione: bisogna continuare a imparare per tutta la vita lavorativa.

The Productivity Puzzle and Misallocation: an Italian Perspective

L'autore

Fabiano Schivardi è professore di Economia e Prorettore alla Ricerca alla Luiss oltre che Research Fellow all’EIEF. È esperto di economia industriale, lavoro, produttività e dinamiche aziendali.


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