Da Obama a Trump, così Sergio ha ammaliato l’America. Il ricordo di Gianni Riotta

25 luglio 2018
Editoriale Entrepreneurship
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Manager celebre per gli orari brutali di lavoro, “non gli stavi al passo, non dormiva mai, ti scriveva una mail il 15 agosto a mezzanotte e voleva la risposta entro 5 minuti” ricorda un amico banchiere americano, Sergio Marchionne trovava chissà come tempo per leggere, e citava gli autori prediletti, tra le dure cifre di bilanci e piani strategici. A volte era “Attraverso lo specchio”, il seguito di “Alice nel paese delle Meraviglie” e il suo team –nei primi anni in Fiat mutò gran parte dello staff, ma chi “teneva il passo” entrava in una squadra solidale fino all’affetto profondo capiva al volo la morale della fiaba di Lewis Carroll: “La Regina Rossa dice ad Alice: “Nel mio Regno devi correre con tutta la forza per restar ferma dove sei. Se vuoi andare da qualche parte, devi correre il doppio di quel che puoi”.

Questo era per Marchionne il mondo globale e per questo, nell’Italia dov’era nato, in Europa, dove viveva in Svizzera, nel Canada dove aveva studiato filosofia, legge, economia, figlio di un Carabiniere che  ha voluto, alla vigilia di un difficile intervento, consegnare all’Arma le nuove Jeep, in America dove è stato ammirato dai due presidenti rivali, Barack Obama e Donald Trump, correva al doppio della sua resistenza, sfiancandosi allo stremo. Chi ha lavorato con Marchionne era impressionato dalla sua autorevolezza, che i critici bollavano come “arroganza”, per capire poi che era smania per i dettagli, mattoni della sua strategia finale. Fece ridisegnare agli ingegneri per giorni la maniglia di un modello Chrysler che imbarcava acqua, e avuta finalmente la soluzione, masticava “Quella f… maniglia mi ossessionava la notte, e sono l’amministratore delegato! In altri tempi sarebbe stata trascurata e avremmo perso clienti”.

Perché, come disse all’Università LUISS in un discorso del 2016 che è tra i suoi più belli, quel che conta è “la fragilità della perfezione”, nemica della “mediocrità”. Il drammatico senso del dovere che ha guidato Marchionne a rilanciare una Fiat che Economist e Financial Times consideravano “finite”, e una Chrysler che tanti economisti consigliavano al presidente Obama di chiudere, portandole a essere leader con Jeep e Ferrari, si fonda giusto “sulla fragile perfezione”. Perfezione raggiunta dormendo per mesi in aereo o in auto, trasformando una rara vacanza in test guida per la nuova Jeep, eppure subito effimera davanti alla turbolenta realtà del nuovo secolo.

Il “figlio del carabiniere” sapeva di dover creare valore per gli azionisti, ma era fiero di vedere operai e non disoccupati. Il “manager ormai leggendario”, secondo la definizione odierna di Bloomberg, ponderava una frase dal romanzo di Ray Bradbury, “Fahrenheit 451”: “Tutti dobbiamo lasciarci dietro qualcosa, quando moriamo…Non importa cosa fai…purché cambi qualcosa, da com’era prima che tu l’avessi toccata in qualcosa che ti assomiglia, quando ritirerai la tua mano. La differenza tra il tizio che taglia l’erba e un vero giardiniere è nel tocco…il tosaerba può pure non passare, il giardiniere conta per la vita”.

Gli attriti che Marchionne ebbe con il capitalismo italiano nascono dal suo perenne sogno di un “gesto perfetto”, pur effimero come un fiore, contro la mediocrità banale.
Oggi son solo lodi per Marchionne, che detestava i cortigiani fedeli, “a chi servono?”, si cita Obama al momento dello storico merger Chrysler-Fiat: “Chrysler ha trovato un partner…nella Fiat, il suo management ha una rotta nuova e straordinaria. Fiat ci porterà tecnologia d’avanguardia…”, si ricorda il giudizio perentorio di Trump “Marchionne è il mio manager prediletto”. Ma tornate a qualche anno fa, dai nostri giornali e siti all’autorevole New Republic americana, erano dubbi ovunque: “Che avrà poi di buono la Fiat?”.

Da qualche mese Sergio Marchionne mi aveva chiesto di lavorare con lui al Consiglio Italia Stati Uniti, che presiedeva dopo i fondatori Gianni Agnelli e David Rockefeller, per promuovere la collaborazione tra i due paesi, “Son tempi difficili, Usa e Ue non devono allontanarsi”. E aveva preparato un grande evento in ottobre, alla Ferrari, “porteremo le migliori energie italiane e americane a Maranello, idee, industria, disegno, stile, cultura”. Si sforzava di intravedere, davanti a ogni tema, la guerra commerciale, la crisi Cina-Usa, l’intelligenza artificiale, “il tocco” magico del cambiamento, pronto a mutare idea davanti ai fatti, come sull’auto elettrica, scettico prima, deciso dopo. Con la voce arrochita dalle sigarette, nell’accento che mescolava inglese, italiano e francese, mi ripeteva severo e divertito il precetto di Mark Twain, “Non è quel che non sai che ti metterà nei guai, Gianni! È quel che sai per certo e invece non è vero, hai capito? E diglielo anche a Princeton!”. Lo farò dottor Marchionne, lo farò, caro Sergio.

 

 

L’articolo proposto è apparso precedentemente su La Stampa. Riprodotto per gentile concessione. 

L'autore

Gianni Riotta è editorialista per La Stampa. È  Direttore del Luiss DataLab, Condirettore del Master in Open Government e Comunicazione istituzionale. Insegna all’Università di Princeton, dove è titolare della Pirelli Visiting Professorship.


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