Che cosa ci dice il dibattito tra economisti sull’impatto di un piano di investimenti pubblici
3 agosto 2018
Anche se i suoi contorni sono ancora poco definiti, iniziano a circolare indiscrezioni sulla dimensione del nuovo piano di investimenti pubblici a cui lavora il governo italiano. Il ministro dell’economia starebbe preparando un piano da 50 miliardi di euro (poco meno del 3% del PIL italiano) che nei prossimi anni dovrebbe garantire un aumento più o meno equivalente del PIL.
Ovviamente al momento non si tratta di cifre precise, ma è impossibile non interrogarsi sulla pertinenza del piano, e sulla sua capacità di autofinanzirsi almeno in parte, cruciale per evitare un conflitto con l’Europa che nessuno vorrebbe.
La capacità del piano di generare crescita è misurata dal moltiplicatore, definito come l’aumento di PIL che segue un aumento di spesa pubblica (in questo caso per investimento pubblico).
In La scienza inutile, ho recentemente passato in rassegna il dibattito recente sulla dimensione dei moltiplicatori della spesa pubblica, un dibattito innescato da un lavoro del 2012 Fondo Monetario Internazionale sull’impatto dei piani di consolidamento fiscale messi in atto in Grecia e nelle altre economie in crisi dell’eurozona. Prima della recessione si stimava che i moltiplicatori fossero piuttosto piccoli, pari a circa 0,5 (il che rende lo stimolo fiscale poco efficace e, al contrario, l’austerità poco costosa in termini di mancata crescita). I lavori del Fondo, i cui risultati sono stati recentemente confermati da Jordà e Taylor in un quadro più sistematico, si accordano su valori più elevati, soprattutto in caso di crisi. Questo vuol dire che l’austerità è stata più dolorosa, e allo stesso tempo ha fallito nel riportare alla sostenibilità dei conti pubblici (il denominatore del rapporto tra debito e PIL, più di quanto non sia calato il numeratore, vale a dire il debito; quindi il rapporto tra i due durante il periodo di austerità è aumentato).
Riporto qui alcuni brani tratti da La scienza inutile.
Negli ultimi anni la stima della dimensione dei moltiplicatori è il terreno di gioco (o di scontro) sul quale si sono confrontati gli economisti interessati a riesaminare la questione dell’efficacia della politica fiscale. I lavori in questo senso si sono moltiplicati, con un’attenzione particolare al moltiplicatore dell’investimento pubblico per il quale si può supporre che l’effetto keynesiano a breve termine sia accompagnato da un impatto positivo a lungo termine sulla crescita potenziale.
Come spesso avviene in economia, i lavori empirici sulla dimensione dei moltiplicatori in ‘tempo normale’ sono lungi dal far emergere un consenso. Le meta-analisi di Gechert e Will (2012) e Gechert (2015) riescono a trarre qualche conclusione generale da un’abbondante letteratura: in primo luogo, il valore dei moltiplicatori della spesa pubblica è vicino a 1. La stima di 0,5 su cui si basavano i programmi di consolidamento fiscale nella zona euro sarebbe quindi stata eccessivamente prudente anche in tempi normali, e a maggior ragione è stata errata in un periodo di crisi. In secondo luogo, conformemente alla logica keynesiana classica, i moltiplicatori della spesa sono più alti di quelli di tasse e trasferimenti (non tutto l’aumento del reddito conseguente ad una riduzione fiscale verrà consumato; la parte risparmiata non alimenterà la crescita; si pensi alle polemiche sugli ottanta euro del governo Renzi). Infine, i moltiplicatori dell’investimento pubblico sono anche più elevati dei moltiplicatori della spesa globale (di circa mezzo punto, il che li porta a valori intorno a 1,5). Tuttavia, queste conclusioni generali si basano su valori medi tra i diversi studi considerati, che nascondono grandi disparità. Questo non è veramente sorprendente, visto che il valore del moltiplicatore dipende, anche teoricamente, da un certo numero di fattori che possono alterarlo in modo significativo: intanto il grado di apertura dell’economia, che determina quanta della spesa aggiuntiva verrà indirizzata su beni di produzione nazionale, spingendo il PIL, e quanta invece su beni importati, con benefici sul PIL dei paesi partner. Poi, la distanza del sistema economico dall’equilibrio naturale, il divario di produzione (l’output gap). Riguardo a quest’ultimo il dibattito sull’efficacia della politica macroeconomica omette spesso che la teoria keynesiana si applica in caso di rallentamento dell’economia, ossia quando l’equilibrio di mercato lascia risorse inutilizzate che la spesa pubblica può riattivare. Di contro, se il sistema economico si trova in piena occupazione, il valore del moltiplicatore sarà uguale a zero nella teoria keynesiana come nella teoria neoclassica; ogni euro di spesa aggiuntiva del governo dovrà comportare un euro di spesa in meno da parte del settore privato, e lo “spiazzamento” sarà totale. Quando l’economia è in piena occupazione un rilancio della domanda non può rilanciare l’attività. Sarebbe capzioso pretendere che Keynes sostenesse il contrario.
I tentativi di stima di un valore del moltiplicatore variabile nel tempo, che dipende quindi dalla posizione ciclica dell’economia, non sono numerosi. Creel et al. (2011) utilizzano un modello strutturale dell’economia francese e trovano che come previsto dalla teoria keynesiana quando il divario tra prodotto effettivo e potenziale è negativo e importante il valore del moltiplicatore è ben più elevato di quando il sistema economico si trova a prossimità dell’equilibrio di piena occupazione. Glocker et al. (2017) confermano che anche per il Regno Unito il moltiplicatore è più elevato in periodi di crisi, mentre Berg (2015), stimando un modello simile per la Germania, trova che la posizione ciclica ha un impatto limitato, ma conferma che i moltiplicatori cambiano nel tempo e sono più elevati quando gli agenti sono pessimisti, o quando il governo non ha difficoltà a finanziarsi (per cui la sostenibilità del debito non è in dubbio).
Questi pochi esempi mostrano come la stima dei moltiplicatori sia complessa e soggetta a molti fattori imponderabili, e portano a concludere che sia stato un errore capitale imporre programmi di austerità fondati su stime semplicistiche dell’effetto che il consolidamento fiscale avrebbe avuto sull’economia. Specularmente, ci allertano sui rischi di politiche meccaniciste e anch’esse semplicistiche, che reagiscono ad ogni rallentamento economico in modo pavloviano, con un’espansione fiscale.
Da questa rassegna, necessariamente incompleta, si può dedurre che per quantificare l’impatto del piano di investimenti del governo, una volta che se ne conosceranno i dettagli, occorrerà un’accurata analisi della posizione ciclica dell’economia, della capacita degli investimenti di mobilitare risorse fin qui inutilizzate, e di generare spesa aggiuntiva per consumi e per investimenti privati. Quello che è sicuro è che immaginare un effetto salvifico (con valori del moltiplicatore di 3 o 4!) cozza con l’evidenza empirica, come sembra mancare di giustificazioni solide la recente presa di posizione di Carlo Cottarelli e Giampaolo Galli che si dicono certi di un effetto nullo o quasi, ipotizzando implicitamente che gli investimenti pubblici non abbiano impatto sulla crescita, e che il deficit abbia (limitati) effetti solo nel breve periodo. In entrambi i casi ci si rifiuta di prendere in considerazione la complessità dell’economia, e si piega la realtà a fini politici. Questi “opposti fondamentalismi” non giovano alla qualità del dibattito pubblico.
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