La TAP, gli ulivi salentini e il valore della natura nell’Antropocene
6 agosto 2018
La sigla TAP si usa per riferirsi al Gasdotto Trans-Adriatico (in inglese Trans-Adriatic Pipeline, da cui l’acronimo), che dovrebbe portare in Italia ed Europa gas naturale proveniente dall’Azerbaigian, snodandosi lungo la Grecia e l’Albania e arrivando in Italia nella provincia di Lecce.
Per completare i lavori è stato necessario espiantare ulivi centenari nel comune di Melendugno e metterli a dimora in grandi vasi in attesa di ripiantarli a lavori finiti. Una delle obiezioni dei comitati di cittadini contrari ai lavori è che questa procedura mette a rischio la sopravvivenza degli alberi. Questa posizione è espressa nel comunicato stampa n. 1 del 7 aprile 2016: «non ci sono soldi che ripaghino la natura o la salute».
L’obiezione si fonda su due premesse: una empirica – l’espianto e il successivo reimpianto metterebbero a rischio la sopravvivenza degli alberi – e una etica – il valore di questi alberi, anche e soprattutto considerandone l’età, giustifica maggiori spese, o addirittura il blocco del cantiere (e nulla può compensare il rischio e la perdita, neanche il fatto che il gasdotto consentirebbe all’Italia di dipendere meno dal carbone, che inquina di più del gas).
L’idea sembra essere che gli ulivi abbiano un valore in quanto tali, innanzitutto come elementi naturali del paesaggio e poi anche per la loro relazione anche storica con esso – per questo, ad esempio, si insiste sul fatto che alcuni di questi alberi sono lì da un secolo. La natura ha un valore in sé e questo valore va tutelato, anche contro il rischio da operazioni come l’espianto e il reimpianto.
A questa posizione estremista se ne può contrapporre una moderata, secondo la quale il valore della natura non è assoluto e può essere sopravanzato dal valore di altre cose. Il rischio di perdere alcuni ulivi può essere compensato dal vantaggio di avere gas più facilmente.
Per quanto sembri plausibile, la posizione moderata non è priva di problemi e la posizione estrema non è del tutto campata in aria. Lo si può capire grazie a un’analogia. Nell’agosto del 2013 un bassorilievo di gesso di Antonio Canova, l’«Uccisione di Priamo», venne staccato da una parete dell’Accademia d’Arte di Perugia, cui era stato donato dagli eredi Canova nel XIX secolo, per trasportarlo ad Assisi in occasione di una mostra. Cadendo il bassorilievo andò in pezzi. Solo l’anno scorso, dopo un restauro difficilissimo, l’opera è ritornata nella Gipsoteca di Possagno. […]
Anche in questo caso le questioni sono due: i rischi corsi durante il trasferimento e il valore delle opere, in quanto pezzi unici o quasi (c’è un’altra versione del bassorilievo di Canova, a Venezia). A molti il valore di queste opere d’arte sembra tale da rendere inaccettabile qualsiasi rischio. Questa posizione estremista non sembra così poco plausibile, a proposito delle opere d’arte.
Immaginiamo che il restauro del bassorilievo canoviano fosse stato impossibile (come pareva all’inizio). Per molti sarebbe stata una perdita irrimediabile, non compensata dai vantaggi – economici e sociali – di un’ulteriore mostra itinerante. Sarebbe stata una perdita anche se dell’opera esisteva un’altra versione (un’altra copia in gesso). La nostra società non esita a mobilitare risorse economiche ingenti per proteggere manufatti non necessariamente pregevoli, ma solo rari. E la rarità è un aspetto essenziale nella nostra percezione del valore delle opere dell’ingegno umano: che penseremmo se scoprissimo che Leonardo da Vinci ha dipinto altre otto copie identiche della Gioconda, indistinguibili da quella che credevamo originale? Saremmo così pronti (come effettivamente siamo) a proteggere la Gioconda del Louvre? (In realtà, alcune copie della Gioconda esistono, anche se non sono di Leonardo. E il quadro originale venne trafugato dal Louvre nel 1911.)
Gli ulivi da espiantare a Melendugno sono 211 e sette sono quelli secolari. La legge 10 del 14 gennaio 2013 (art. 7, c. 1) stabilisce che si definiscano ‘monumentali’ alberi che siano «rari esempi di maestosità e longevità» o «di particolare pregio naturalistico, per rarità botanica e peculiarità della specie», oppure con «un preciso riferimento ad eventi o memorie rilevanti dal punto di vista storico, culturale, documentario o delle tradizioni locali». Di piante del genere ce ne sono molte, in Italia e nel mondo. […] Accetteremmo che queste piante venissero portate in giro per il mondo, magari in musei botanici itineranti? Saremmo anche noi addolorati per la distruzione, colposa o fortuita, di questi monumenti vegetali?
Forse le piante e altri elementi della natura non hanno lo stesso valore delle opere d’arte. Una posizione tradizionale (richiamata nell’introduzione a questo libro) distingue natura e arte in base all’origine: l’arte deriva dall’esercizio dell’ingegno umano, la natura da processi casuali. Nella discussione si trovano altre posizioni: per alcuni, l’arte ha più valore della natura, per altri la natura ha più valore dell’arte, per altri ancora l’arte e la natura hanno valore in maniera simile.
Se gli ulivi di Melendugno sono ‘monumentali’, allora hanno lo stesso valore delle opere d’arte. Ma forse in un certo senso essi sono opere d’arte, sono monumenti della natura – perché derivano da un lungo processo storico, difficile da riprodurre, perché sono difficilmente sostituibili, e perciò preziosi. […] Questi alberi non sono totalmente artificiali, ma neanche sono del tutto naturali – almeno nel senso di essere del tutto incontaminati o intatti. È evidente che la loro esistenza è avvenuta in un contesto storico preciso e che tale contesto ha inciso sul loro sviluppo e sulla forma che hanno – essi sono anche il frutto di una certa cultura materiale, per esempio, di certe tecniche agricole, di una specifica cultura del cibo. E il loro valore – il loro valore come monumenti naturali – deriva da quest’interazione fra storia e natura, fra mano umana e forze della natura. Gli ulivi monumentali di Melendugno, proprio in quanto monumenti naturali, sono un esempio di natura ibrida, e questo li rende di valore.
Nell’Antropocene molti pezzi di natura sono ibridi, anche se non sono necessariamente monumenti. Nell’Antropocene la natura è ibrida, l’artificio fa parte della natura e la natura entra nella sfera artificiale, ma ciò non toglie valore alla natura. Anzi, la costituzione ibrida della natura nell’Antropocene è un fattore che aggiunge valore. Il valore della natura ibrida dell’Antropocene sta proprio nella mescolanza fra forze naturali e umane che essa costituisce. L’idea che difendiamo è che la natura dell’Antropocene sia un oggetto ibrido, metà naturale metà artificiale, in parte natura, in parte manufatto.

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