Prigionieri della realtà. Mark Fisher e il “realismo capitalista”
9 agosto 2018
In un recente articolo pubblicato su LUISS Open, Giuseppe Di Taranto osserva che «la transizione che stiamo vivendo verso la de-globalizzazione, in conclusione, è solo la dimostrazione della difficoltà – se non della impossibilità – di far convivere in un mercato libero concorrenziale con regole valide per tutti gli attori dell’economia, regimi politici opposti e ideologicamente ancora troppo distanti tra loro. Forse, dovremmo far nostra la lezione di Mark Fisher: è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». Pochi libri stanno facendo discutere in questi anni come Realismo capitalista il saggio dello scrittore, filosofo, attivista e critico britannico, scomparso nel 2017, di cui pubblichiamo un estratto:
Guardando [il film del 2006 di Alfonso Cuarón] I figli degli uomini ho inevitabilmente pensato alla frase di volta in volta attribuita a Fredric Jameson o Slavoj Žižek, quella secondo la quale è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. È uno slogan che racchiude alla perfezione quello che intendo per «realismo capitalista»: la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente. Un tempo, i film e i romanzi distopici erano esercizi di immaginazione in cui i disastri agivano come pretesto narrativo per l’emersione di modi di vivere nuovi e differenti. Con I figli degli uomini questo non avviene: il mondo che prefigura sembra un’estrapolazione o un’esacerbazione del nostro, più che una realtà alternativa vera e propria. In quel mondo come nel nostro, ultra-autoritarismo e capitale non sono in alcun modo incompatibili: i campi d’internamento e le caffetterie in franchise coesistono in tutta tranquillità […].
I figli degli uomini riflette il sospetto che la fine del mondo sia già avvenuta, l’idea che molto probabilmente il futuro non porterà altro che reiterazione e ripermutazione di quanto esiste già. In questo senso, il realismo capitalista non è semplicemente un particolare tipo di realismo; è più il realismo in sé e per sé […]. Il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è un consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine […] . Il «realismo» è qui analogo alla prospettiva al ribasso di un depresso che crede che qualsiasi stato positivo, qualsiasi speranza, non sia altro che un’illusione pericolosa.
In quella che è senza dubbio la più notevole analisi dai tempi di Marx [Capitalismo e schizofrenia, ndr] Deleuze e Guattari descrivono il capitalismo come una sorta di eventualità oscura che ha perseguitato tutti i precedenti sistemi sociali. Il Capitale, dicono, è «la Cosa innominabile», l’abominio che le società primitive e feudali tentavano di tenere a distanza. Quando poi finalmente arriva, il capitalismo si accompagna a un’imponente desacralizzazione della cultura. È un sistema che non è più governato da alcuna Legge trascendente: al contrario, smantella tutti i codici trascendenti per poi ristabilirli secondo criteri propri. I limiti del capitalismo non sono fissati per decreto, ma definiti (e ridefiniti) pragmaticamente, improvvisando […].
A quanto pare, siamo nel pieno di quella «fine della storia» di cui parlò Francis Fukuyama dopo la caduta del muro di Berlino: la sua tesi, secondo la quale la storia ha raggiunto il suo climax con l’avvento del capitalismo liberale, è già stata ampiamente derisa; eppure ha finito per essere accettata, persino introiettata, a un livello culturale inconscio. Andrebbe però ricordato che, persino quando Fukuyama avanzò l’idea che la storia fosse approdata alla sua ultima spiaggia, di trionfalistico c’era poco. Fukuyama avvertiva che la sua immaginaria ville radieuse era infestata dai fantasmi: solo che pensava si trattasse dello spettro di Nietzsche, anziché di Marx.
In uno dei suoi passaggi più profetici Nietzsche parla di «un’era satura di storia». «Un’epoca incorre nella pericolosa disposizione intima dell’autoironia, e da essa in quella ancora più rischiosa del cinismo», si legge nelle Considerazioni inattuali; un «carnevale cosmopolitico», ovvero una spettatorialità distaccata, avrà sostituito la partecipazione e il coinvolgimento. È la condizione dell’Ultimo Uomo nietzschiano: colui che ha visto tutto, ma che proprio l’eccesso di (auto)consapevolezza condanna all’indebolimento e alla decadenza […].
Sarebbe comunque pericoloso (oltre che fuorviante) immaginare il recente passato come uno stato prelapsario gravido di potenzialità politiche, ed è bene ricordare il ruolo che la mercificazione ha giocato nella produzione culturale nel corso del XX secolo […]. Prendiamo per esempio quelle aree culturali «alternative» o «indipendenti» che replicano senza sosta i vecchi gesti di ribellione e contestazione come se fosse la prima volta: «alternativo» e «indipendente» non denotano qualcosa di estraneo alla cultura ufficiale; sono semmai semplici stili interni al mainstream – o meglio sono, a questo punto, gli stili dominanti del mainstream.
Realismo capitalista, originariamente uscito nel 2009 come Capitalist Realism: Is there no alternative?, è stato recentemente tradotto in italiano da Nero, che ringraziamo per l’estratto qui riprodotto.

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