L’estremismo (fiscale) che rende problematica la Flat tax

8 ottobre 2018
Editoriale Europe
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Prosegue il dibattito avviato sulla Flat tax avviato su LUISS Open da Francesco Saraceno. Qui potete leggere anche l’intervento di Nicola Rossi, a favore dell’aliquota unica
Da quasi 25 anni in Italia vengono avanzate proposte di flat tax o di quasi flat tax con due aliquote. Quando scese in campo, Silvio Berlusconi lanciò l’aliquota unica del 33%, poi nel contratto con gli italiani del 2001 si accontentò di due aliquote al 23% ed al 33%. Più recentemente, l’Istituto Bruno leoni ha proposto il 25% su tutte le imposte, accompagnato da un minimo vitale per i poveri. Nell’ultima campagna elettorale abbiamo avuto il 23% di Forza Italia, il 15% della Lega e infine la struttura a due aliquote, 15% e 20%, di un nuovo contratto di governo. Passano gli anni e la flat tax continua a non vedere la luce, eppure le promesse diventano sempre più radicali.

Perché gli italiani mostrano per la flat tax un interesse che non trova eguali negli altri paesi dell’Europa occidentale, dove il dibattito sull’aliquota unica è praticamente assente, con l’eccezione degli Stati Uniti (dove però l’imposta sul reddito ha ben 7 scaglioni)? Le ragioni vanno forse ricercate nei problemi del nostro sistema tributario e dell’Irpef in particolare. Il prelievo complessivo è iniquamente distribuito, molto forte sui contribuenti onesti e troppo basso sugli evasori, e le regole da rispettare sono tante e complesse. La flat tax è vista come la strada verso un sistema più semplice, più equo e meno distorsivo. Molti inoltre considerano eccessivo il peso dello Stato nell’economia e nella società, e la flat tax, attraverso aliquote basse, può essere il cavallo di Troia in grado di costringere lo Stato a ridurre la spesa, riequilibrandone il rapporto con i cittadini. L’Irpef, da parte sua, è vittima di una continua erosione della base imponibile, sempre più limitata ai redditi da lavoro dipendente e da pensione. Le sue aliquote marginali effettive sono spesso irrazionali e oscure. Anche la miriade di tax expenditures, favorendo gruppi particolari di contribuenti, ne rende incerto l’effetto distributivo complessivo.  I trasferimenti monetari sono poco redistributivi e a volte sprecati a favore di chi non ne ha bisogno. Tutto ciò alimenta il fascino di un sistema semplice composto da un’imposta flat e da un minimo vitale riservato ai poveri che sostituisca i tanti trasferimenti attuali. L’accoppiata tra flat tax e trasferimento universale è al centro sia della proposta dell’Istituto Bruno Leoni che del contratto di governo. Lo spazio ci permette qui di considerare principalmente gli effetti della flat tax.

Per un fisco a prova di progressività

Da un punto di vista distributivo, l’introduzione di una flat tax con aliquota bassa avrebbe un effetto evidente: ridurre il carico fiscale soprattutto per i redditi più alti. Sia nell’ipotesi dell’Istituto Bruno Leoni sia in quella del contratto di governo (che non è flat, avendo due aliquote), infatti, circa il 50% del minor gettito andrebbe al 10% più ricco delle famiglie italiane. Le classi medie guadagnerebbero, visto che la riforma non è a parità di gettito, ma assai meno sia in termini relativi che assoluti. Nello schema del contratto, ad esempio, in media le famiglie del 20% centrale della distribuzione del reddito risparmierebbero circa 1.000 euro di Irpef all’anno, quelle del 20% più ricco 7.000 euro. Certo sarebbe possibile avere una flat tax meno favorevole ai ricchi, ma servirebbero soglia esente e aliquota unica ben più alte, a livelli molto superiori a quelli di tutte le proposte in campo. Grazie alla deduzione, l’aliquota unica riesce a garantire una significativa progressività tra redditi bassi da un lato e redditi medio-alti dall’altro, ma non può differenziare adeguatamente tra classi medie e redditi alti. Per mantenere una certa progressività lungo l’intera distribuzione del reddito servono almeno due aliquote, meglio ancora tre. L’Irpef attuale, di fatto, non è molto lontana da una struttura a due aliquote: considerando anche le addizionali locali e la decrescenza di alcune detrazioni, l’aliquota marginale effettiva è circa 30% fino a 28mila euro, circa 45% oltre. Se si vuole proprio ridurre il numero degli scaglioni (il che non è strettamente necessario per avere un’imposta più semplice), è necessario mantenerne almeno due, leggermente inferiori a questi valori, spostando in avanti la soglia a cui scatta la seconda. In questo modo si manterrebbe un’adeguata progressività, riducendo il carico per tutti, compatibilmente con i vincoli di bilancio. E soprattutto si eviterebbero le inutili rigidità imposte dall’aliquota unica, che è un caso estremo di un ampio ventaglio di possibilità. Non si vede perché legarsi le mani ad un caso limite, a meno che non si voglia in questo modo inchiodare lo Stato ad un’aliquota con forte valore simbolico e politicamente difficile da cambiare. Il fatto che nel contratto di governo compaiano due aliquote, per quanto vicine, va forse letto nel senso che si vuole arrivare ad uno schema semplificato, ma non all’aliquota unica. Gli interventi sull’Irpef dovrebbero avere come priorità l’ampliamento della base imponibile, anche se purtroppo anche l’attuale governo sembra muoversi, in questo senso, nella stessa direzione dei predecessori, cioè verso nuovi regimi agevolati e casi particolari.

Per un fisco a prova di disuguaglianza

Le tax expenditures dell’Irpef vanno riviste e semplificate, e la sua base imponibile va rafforzata cercando di riportarvi alcune voci oggi fuori da essa. L’aliquota unica comporterebbe un radicale cambiamento nella progressività dell’imposta che non pare essere all’ordine del giorno. Dobbiamo infatti chiederci, più in generale, quanta progressività vogliamo.  E’ vero che la diseguaglianza in Italia non è cresciuta molto negli ultimi anni (a differenza della povertà), ma sono in corso fenomeni (globalizzazione, progresso tecnologico, precarizzazione nel mercato del lavoro) che spingono nella direzione di un aumento della diseguaglianza. Vogliamo che anche il fisco contribuisca a queste tendenze? In Italia è inoltre bassa la mobilità intergenerazionale: le condizioni socio-economiche dei giovani dipendono molto da quelle dei genitori. Un’imposta sul reddito poco progressiva ridurrebbe ulteriormente questa mobilità a favore delle rendite. E’ vero, in generale, che la redistribuzione si fa più con i trasferimenti (denaro e servizi) che con le imposte, ma i trasferimenti in denaro italiani sono tra i meno redistributivi d’Europa, a causa del forte peso delle pensioni (che il governo vuole aumentare) e dei limitati trasferimenti alle famiglie. Se si abbatte la progressività dell’Irpef, l’intero sistema di tax-benefit diventa davvero poco redistributivo, a meno di non andare verso redditi di cittadinanza che hanno problemi su comportamenti e sostenibilità tutti da verificare.

Mentre gli effetti distributivi di una flat tax sono piuttosto chiari, quelli sui comportamenti sono più incerti. Aumenterà l’offerta di lavoro? Forse si, ma non dimentichiamo che se diminuiscono sia l’aliquota media che quella marginale si genera un contrasto tra l’effetto reddito (a parità di ore di lavoro, il mio reddito netto è aumentato, quindi se riduco le ore lavorate posso avere lo stesso reddito di prima e più tempo libero per andare in bicicletta) e l’effetto sostituzione (ogni ora di lavoro vale di più, quindi mi impegno più di prima). L’effetto netto può essere incerto. E’ probabile invece che l’evasione diminuirà, visti i suoi elevati livelli attuali, ma certo non in misura tale da recuperare il gettito perduto.

Malgrado esiti distributivi opposti, flat tax e reddito di cittadinanza hanno in comune la radicalità della proposta. Sembra più sensato, considerati anche i vincoli di bilancio, procedere in modo più graduale, che nel caso della flat tax significa non sposare un modello estremo ma provare a correggere i problemi dell’Irpef verso un sistema più semplice, che riesca a rendere compatibile una sostenibile riduzione del carico fiscale con la difesa di un’adeguata progressività.

L'autore

Massimo Baldini insegna Public economics all’Università di Modena e Reggio Emilia, dove è membro del Capp, Centro di Analisi delle Politiche Pubbliche.


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