Al fianco dei lavoratori e contro il global-capitalismo cinese. Ma Trump è di sinistra?
10 ottobre 2018
“Forever young… May you stay forever young”
(Bob Dylan, 1974)
Un tempo, l’esser anziani era un merito e comunque fonte di saggezza. Dai tempi della contestazione e delle canzoni di protesta, le cose si son ribaltate. Un tempo, la ponderazione pacata era un merito; ora, al contrario, il merito sta spesso nell’essere veloci. Quanto più veloci, tanto meglio. Per realizzare quest’obiettivo nessun prezzo è eccessivo: la contrazione dei ragionamenti è cosa buona e giusta; l’andamento sincopato nello sviluppo del pensiero, specie se irregolare, è creatività.
Forse, potrebbe esser opportuno rallentare il vorticoso pensiero nella società contemporanea: si tende a vivere senza il senso del tempo e, quindi, senza il senso della misura. Non a caso l’assenza del limite è il formale della contemporaneità.
In forza di una convenzionale sinteticità comunicativa Donald Trump è di destra; mentre il pensiero liberal, politicamente corretto, è di sinistra. Verifichiamo (partendo dall’ipotesi che le definizioni “destra” e “sinistra” abbiano ancora un significato, al di là della mera segnaletica stradale).
In queste righe non si intende sottolineare gli effetti dirompenti di Donald Trump. Bensì, si mira a riflettere, senza pregiudizi, sui contenuti. Che egli abbia devastato le categorie tradizionali della politica – e le modalità di comunicazione- è evidente. Come pure evidente è la crisi profonda nel partito democratico alla ricerca di contenuti da contrapporre (oltre ai “no” aprioristici a Trump; a qualche discorso universitario di Obama e al recente libro della ‘vecchia’ gloria del giornalismo, B. Woodward).
Trump può [non] piacere, ma il nodo è altrove. La sua politica spregiudicata persegue lucidamente obiettivi precisi, condivisibili [o non] che siano. Punto di partenza di una riflessione che voglia essere realistica risiede nel fatto che una base consistente del suo elettorato è costituita dalla “classe operaia”, tradizionale bacino elettorale dei Democratici. E le scelte di politica economica, finanziaria e legislativa del biennio trumpiano hanno esplicitamente mirato a tutelare quel blocco elettorale, che, a sua volta, apprezza e ringrazia.
Seconda riflessione: Trump si è esposto ai fulmini del corretto mondo intellettuale (cinematografico, giornalistico, etc.) minacciando l’introduzione dell’antico, obsoleto strumentario dei dazi. Non si tratta, in questa sede, di valutare se brillanti attori sono in grado di valutare scelte di politica di bilancio, bensì riflettere sui dazi.
Ebbene, soccorre una riflessione di Dani Rodrik, professore di International Political Economy presso la School of Government di Harvard, il quale approfondendo il paradosso della globalizzazione (The Globalization Paradox: Democracy and the Future of the World Economy, W.W. Norton, 2011) ha inaspettatamente scardinato certi apriorismi del politicamente corretto. Egli infatti – e da qualche anno – mette a fuoco due circostanze:
a) un’economia funzionante su base planetaria presuppone poteri pubblici funzionanti;
b) ma un super-Stato non è accettato dalla sensibilità contemporanea dei cittadini.
Pertanto, il tentativo di abbattere ogni frontiera per beni (e migranti), si espone al rischio di fallire, specie alla luce di forme evidenti di sfruttamento della manodopera a basso prezzo (dumping sociale). Il quadro che inizia ad emergere inizia a destabilizzare: Trump tutela i lavoratori (dell’acciaio e non solo) e trova (indiretto) sostegno in un professore di Harvard?
Dalla visione di Rodrik – non lontano dalle posizioni del sen. Bernie Sanders, mancato antagonista di Trump nelle presidenziali di due anni fa – emerge il timore che una economia di mercato, operante su base globalizzata, postuli un super-Stato o comunque strutture di governo a connotati non democratici, giacché la logica del dumping sociale e dello sfruttamento potrebbero essere non controllabili. Verrebbe quindi da soggiungere il quesito se il ritorno a un capitalismo nazionalista à la Trump non fornisca quelle garanzie che Rodrik vede in dissolvenza…E Trump cosa fa, se non rassicurare sul versante dello Stato nazionale? In prima e ultima istanza egli scardina il paradigma della globalizzazione come parametro costituzionale del XXI secolo (altresì noto come transformative constitutionalism).
Trump, inavvertitamente (inconsapevolmente?) segnala che il rapporto fra cittadino e democrazia è alterato e l’ingannevole paradigma porta ad esiti che non sono sani. Rodrik prende spunto dall’esperienza del porto di Qingdao per giungere ad una disarmante conclusione: quella per cui risultano violazioni da parte della Cina dello spirito e delle disposizioni del WTO sulla proprietà intellettuale. Insomma, manifesta perplessità verso Pechino e non finisce qui: infatti, auspica l’introduzione di dazi verso Paesi, quali Cina e Vietnam, nei quali i beni di produzione sono creati attraverso metodi di sfruttamento della manodopera (Straight Talk on Trade: Ideas for a Sane World Economy, Princeton University Press, 2017).
Egli inserisce questa riflessione all’interno della preoccupazione verso l’insanabile contrasto democrazia/capitalismo globalizzato. E quindi, con il suo rango accademico, nobilita un ragionamento, che poi in parte ritroviamo nella politica di Trump, non parimenti corretta e nobile: tuttavia, essa opera in sintonia (involontaria) con il Rodrik-pensiero.
Marianna Mazzuccato, brillante professoressa a Londra (UCL) di Economics of Innovation an Public Value, pure naviga concettualmente da est verso ovest, cioè verso sinistra. Già nel 2013 aveva infranto un tabù nella mitologia di Silicon Valley (in The Entrepreneurial State: Debunking Public vs. Private Sector Myths, Anthem 2013), cioè che la maggior parte delle innovazioni tecnologiche non proviene da qualche garage, bensì da laboratori di ricerca statali. Ora con The value of everything: making and taking in the global economy (Allen Lane, 2018) incalza con un’ulteriore intuizione: il rapporto diretto fra valore (di un bene o servizio) e costo non è sempre valido e corretto. Infatti, la creazione di quei valori si fonda su beni e servizi (come la sicurezza, la formazione culturale, la ricerca di base) forniti dall’apparato statale, a basso costo per i fruitori. I conti iniziano a non tornare. È un po’ come con la circumnavigazione del globo: vi è chi naviga da est verso ovest, chi da ovest verso est, ma alla fine si può dare il caso di giungere alla stessa meta. Non è un caso, se in questi mesi, talora le posizioni politiche in Francia di un Mélenchon lambiscono quelle della signora Le Pen.
L’indagine deve proseguire e gli esiti diventano vieppiù paradossali: un altro autore, Robert Kuttner, la cui correttezza politica è inossidabile in forza della sua pluridecennale presenza sulla stampa più corretta del mondo (dal Washington Post al Boston globe, dal Business Week all’Huffington Post), evidenza un contrasto insanabile – nella vecchia Europa si direbbe, ’ontologico’- fra democrazia e capitalismo globalizzato (Can democracy survive global capitalism?, Norton & co.2018). E il timore che egli fa sorgere nel lettore è che l’una (la democrazia) debba cedere il passo all’altro (the Global Capitalism). Il quadro che delinea è tranchant: le scelte di politica economica dagli anni ’70 (per l’esattezza dalla rottura degli accordi di Bretton Woods sui cambi fissi nel dicembre ’71) sino allo smontaggio dei sistemi daziari senza la contestuale introduzione di clausole di protezione sociale, sarebbero sbagliate. L’insoddisfazione della classe media statunitense, per la mancanza di programma d’investimento – e la creazione, quindi, di nuovi posti di lavoro (in luogo di quelli soppressi) – assurge a fattore rilevante e così si chiude il cerchio fra le idee di Rodrik e le politiche di Trump (“America first“).
È chiaro che tutto quest’articolo è giocato su un paradosso. Ovviamente, Trump non è di sinistra (ammesso e non concesso che destra e sinistra abbiano oggi un significato cultural-politico); ma gli elementi sopra citati invitano a riflettere, perché si evitino gli apriorismi dei preconcetti. Quanto emerso vorrebbe indurre a valutare nel profondo la sostanza delle cose, evitando i luoghi comuni. Se x o y affermano una tesi, essa va approvata o criticata a seconda della valutazione nel merito, non a seconda della vicinanza che si ha verso x o verso y. La velocità delle riflessioni, la rapidità frenetica delle comunicazioni incrementano l’assenza di responsabilità. In conclusione, non è l’abito (ideologico) a fare il monaco (politico).
Il culto del forever young ha generato il culto del forever fast, che porta a semplificazioni ingannevoli e fuorvianti. Queste righe vorrebbero invitare ad applicare il principio di realtà nel valutare le cose del mondo; a recuperare il dissolto senso di responsabilità nelle parole e nei concetti che si usano. Insomma, non sempre forever young e forever fast sono paradigmi da seguire. Anche il tempo ha i suoi tempi e vanno recuperati. Senza il senso del tempo e senza memoria una comunità muore, soffocata dagli apriorismi e dalla superficialità delle semplificazioni.
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