La guerra contro Bruxelles è un’occasione sprecata

22 novembre 2018
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Solo uno sprovveduto avrebbe potuto stupirsi della decisione della Commissione di avviare una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia. Fin dalla presentazione del nostro Documento di Economia e Finanza (DEF), il governo italiano ha operato perché questo avvenisse, rifiutando ogni dialogo sostanziale con i tecnici di Bruxelles.

Trascurando l’ipotesi che la coalizione gialloverde cerchi l’incidente che spinga l’Italia fuori dall’euro contro la volontà dei propri cittadini (ipotesi possibile ma a mio avviso poco probabile, almeno in questo momento), l’ostinazione del governo italiano può essere spiegata da dinamiche che poco hanno a che fare con l’economia.

Tutti sappiamo come la coalizione oggi al governo sia il risultato di un accordo post elettorale tra forze che avevano parlato, in campagna elettorale, ad elettorati molto diversi. Un’alleanza innaturale fin dai primi passi, come mostrato dalle difficoltà incontrate nella stesura del contratto che ha portato alla nascita del governo Conte. Un solo tema univa veramente la coalizione gialloverde, l’opposizione alle politiche di austerità imposte dall’Europa e all’atteggiamento troppo compiacente dei governi precedenti.

Il DEF, insieme eterogeneo di misure che sembrano badare più alla soddisfazione dei rispettivi elettorati che a disegnare un progetto per il Paese, rappresenta in modo evidente questo “peccato originale” della coalizione di governo. Solo il rifiuto dell’austerità e l’interruzione del percorso di riduzione del debito concordato dai governi precedenti con la Commissione tengono insieme la “manovra del popolo”.   Ne consegue che il suo messaggio politico è più nel contenitore, i saldi totali, che nel contenuto, le singole misure che compongono la manovra.

È per questo che non si è assistito, in queste settimane, a quel “mercatino rionale di Bruxelles” tipico di ogni autunno, in cui ogni governo (non solo quello italiano) negozia per qualche decimo di punto di deficit in più o in meno. Anche un solo decimo di punto, uno scostamento irrisorio dal numero magico del 2,4% annunciato di rapporto tra il deficit e il PIL, avrebbe significato per il governo gialloverde la rinuncia all’unico elemento veramente caratterizzante del suo primo provvedimento di politica economica, la guerra all’austerità europea. È per questo che l’annuncio di ieri da parte della Commissione era da considerarsi inevitabile, fin dal giorno della presentazione del DEF.

Chi scrive ha sempre fustigato la dogmatica insistenza delle autorità europee sulla riduzione del debito pubblico. L’adesione dei policy makers europei a un consenso che postula il ritiro dello Stato dall’economia come l’Alfa e l’Omega della politica economica è a mio avviso responsabile dei problemi economici della zona euro, della crescita anemica anche nelle sue economie più dinamiche, della divergenza tra Paesi che continua a metterne in pericolo l’esistenza.

Nel caso specifico della manovra italiana, anche considerando che gli obiettivi del governo sono sicuramente troppo ottimisti, nessun analista in buona fede può considerare che gli scostamenti dalle regole europee previsti dal DEF abbiano seriamente intaccato la sostenibilità delle finanze pubbliche italiane: il debito è stabilizzato, e il deficit rimarrà, anche negli scenari più negativi, al di sotto della soglia psicologica del 3% (che coincide con gli obiettivi europei fissati dal Trattato di Maastricht). Certo, le cose cambierebbero in caso di attacchi speculativi contro il nostro paese, che metterebbero in ginocchio il sistema creditizio prima ancora che le nostre finanze pubbliche. Ma tali attacchi potrebbero essere resi impossibili da un’azione concordata di Bce, Governo e Commissione, che convincessero i mercati che l’economia italiana è su un sentiero di crescita stabile e duratura, che l’uscita dall’euro non è nemmeno un piano B (o C, o D), e che il debito italiano è sostenibile.

Il problema è nel contenuto della manovra, che come rilevato da più parti non è altro che un patchwork di misure incoerenti tra loro, volte a soddisfare gli eterogenei (e impazienti) elettori dei due partiti al governo, e il cui impatto sulla crescita è destinato ad essere molto limitato. Paradossalmente, a dirlo sono proprio le cifre del governo. La tabella seguente riprende i dati forniti dal ministro Tria in occasione di un’audizione dinanzi alle Commissioni bilancio congiunte di Camera e Senato il 9 ottobre scorso.

Cattura
E tutto questo senza contare i numerosi difetti della manovra (su cui molti si sono dilungati), da un reddito di cittadinanza che sarà messo in campo prima che ci siano le infrastrutture volte ad evitare abusi e ingiustizia sociale (ad esempio dei centri per l’impiego funzionanti), a una riduzione delle tasse che riguarderà soprattutto quelle imprese la cui propensione a investire è più bassa, e via dicendo.
La tabella mostra come il moltiplicatore implicito della maggior parte delle misure principali sia piuttosto limitato. Ogni euro di deficit in più, in media, nel 2019 porterà solo 49 centesimi di PIL aggiuntivo (le previsioni per gli anni successivi sono simili).

Il governo italiano, insomma, è partito per una guerra contro Bruxelles in cui c’è molto da perdere e ben poco da guadagnare: ci si è mostrati inflessibili sui saldi totali, senza essere convincenti sul fatto che la violazione delle regole porterà a un significativo aumento del nostro PIL. Per questo, la procedura di infrazione era semplicemente ineluttabile.

La storia non si scrive con i se e con i ma; è lecito tuttavia immaginare che le cose avrebbero potuto essere diverse se la manovra, invece di guardare ai bacini elettorali dei partiti di governo, avesse avuto come obiettivo la crescita di lungo periodo del Paese. La tabella del ministro Tria mostra che la sola voce per cui il moltiplicatore è significativo (intorno a 1) è l’investimento. Cosa sarebbe successo se il governo italiano si fosse presentato a Bruxelles con una previsione di deficit uguale a quella di oggi (quindi fondamentalmente sostenibile, come notato sopra), ma con un credibile piano di investimenti pubblici e incentivi a quelli privati, volto a far aumentare sia il PIL corrente, sia (soprattutto) la crescita potenziale del nostro Paese? L’Italia avrebbe avuto più cartucce da utilizzare nel negoziato con la Commissione e avrebbe probabilmente ricevuto il sostegno di qualche altro paese.

Si è scelta una strada diversa, forse l’unica possibile vista l’eterogeneità della coalizione di governo. Così facendo però si è resa meno credibile la sfida, sacrosanta per molti versi, all’ortodossia europea. Un’occasione sprecata, insomma.

Cosa succederà ora? Non è chiarissimo. Il governo italiano probabilmente non cambierà rotta, proprio perché la “sfida all’Europa” è di fatto il solo collante che tiene insieme una coalizione di governo sempre più litigiosa. La palla quindi rimane nel campo della Commissione e dei partner europei. Mentre è abbastanza ovvio che scontro ci sarà, i tempi invece sono più incerti. Se la Commissione seguisse un approccio puramente formalistico, le cose potrebbero andare abbastanza in fretta e la procedura potrebbe essere portata al Consiglio per approvazione già il 22 gennaio prossimo. Ma i grigi burocrati di Bruxelles ci hanno più volte mostrato che sanno fare politica, a volte meglio dei cosiddetti politici di professione. A Bruxelles e nelle maggiori capitali europee è ben chiaro il rischio di farsi risucchiare in uno scontro con un “governo del cambiamento” che ha bisogno di una campagna elettorale permanente per nascondere i conflitti che ne minano l’azione. Non sarei stupito se la procedura di infrazione fosse rallentata ad arte fino a dopo le elezioni europee di maggio, per evitare di alimentare la narrativa sul “giogo europeo” che il governo italiano ha imbastito fin dai suoi primi passi.

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