Ecco cosa succederebbe all’economia italiana se la trattativa Governo-UE sulla manovra fallisse
3 dicembre 2018
(…) Modificare la bozza della Legge di bilancio per il 2019 entro la metà/fine del prossimo dicembre, mediante un aggiustamento del deficit strutturale pari a 0,9 punti percentuali, potrebbe quindi rivelarsi una strategia premiante anche per il governo italiano. Il maggior ostacolo alla realizzazione di tale strategia risiede nel fatto che il governo di coalizione deve garantire equilibri, pur se inefficienti, fra le due diverse componenti (Movimento 5 stelle e Lega). Una correzione strutturale della portata detta richiederebbe, invece, di posporre vari punti del programma e di fissare – così – una più o meno esplicita gerarchia fra gli obiettivi dei pentastellati e quelli dei leghisti.
(…) Il precedente ragionamento fa emergere il rischio concreto ed elevato che l’attuale coalizione di governo non sia in grado né di fornire una positiva risposta alla decisione della Commissione europea, modificando la Legge di bilancio entro la metà-fine dicembre 2018, né di realizzare gli aggiustamenti che saranno – con ogni probabilità – richiesti dalle istituzioni europee rispetto alla procedura per debito eccessivo nei confronti dell’Italia (nel migliore dei casi, 24 miliardi di euro per il 2019 rispetto all’attuale bozza di bilancio).
Se questa previsione negativa si rivelasse fondata, si aprirebbero scenari molto preoccupanti per l’Italia. Il nostro paese si avvierebbe su un sentiero mai battuto nella storia ventennale dell’euro-area: uno stato membro si porrebbe, in forme deliberate ed esplicite, in contrasto con le regole condivise dell’unione monetaria e dell’unione economica e non riconoscerebbe l’autorità delle istituzioni preposte a far rispettare tali regole. L’economia e la società italiana si troverebbero così esposte a una forte instabilità che, specie a causa di due fattori fra essi concatenati, potrebbe avere conseguenze disastrose.
Il primo dei due fattori appena menzionati riguarda la reazione degli investitori internazionali e italiani alla posizione eccentrica del nostro paese. Le tensioni di mercato, che si innescherebbero a causa della contrapposizione del governo italiano rispetto al resto della UE (a prescindere dal colore politico), indurrebbero forti rialzi nei tassi di interesse e connesse ingenti perdite per i detentori di titoli di stato con l’esigenza di liquidare i loro investimenti finanziari prima della scadenza. Di conseguenza, verrebbe scoraggiata la domanda di titoli pubblici italiani in un periodo (il 2019) che sarà caratterizzato da stabili scadenze di vecchi titoli pubblici ma da crescenti indebitamenti correnti (con un fabbisogno totale di copertura pari a circa 400 miliardi di euro su base annuale). I settori bancario e assicurativo italiano, che nel recente passato hanno fatto opera di supplenza assorbendo titoli del debito pubblico nazionale nelle fasi di scarso assorbimento da parte di altri investitori, non potrebbero riprodurre tale ruolo sia per non gravare di ulteriori rischi i propri bilanci già precari sia per soddisfare i nuovi vincoli imposti dal cambiamento di ‘business model’ e dalla conseguente riallocazione di gran parte dei titoli pubblici già detenuti nella categoria dei titoli liquidabili solo a scadenza. Questa riallocazione, che pure ha evitato l’immediato emergere di minusvalenze e di insufficienze di capitalizzazione per il settore bancario italiano, implica irrigidimenti nei relativi bilanci e comporta l’assunzione di maggiori rischi rispetto a ristrutturazioni (totali o parziali) del debito pubblico nazionale e rispetto al caso estremo di un’uscita dell’Italia dall’euro-area.
In un quadro del genere, connotato da forte incertezza politico-istituzionale e da una connessa e crescente instabilità economica, si avrebbero ulteriori tensioni sui mercati finanziari che certo non faciliterebbero l’accesso ai finanziamenti da parte delle imprese e che – in ogni caso – innalzerebbero i costi (tassi di interesse) dei prestiti bancari e di altre forme di debito. La combinazione di incertezza e di restrizioni finanziarie scoraggerebbe, come in parte sta già avvenendo, gli investimenti delle imprese private; le perdite sulla ricchezza finanziaria – direttamente o indirettamente – investita dalle famiglie in obbligazioni e azioni scoraggerebbero i consumi privati. L’esito macroeconomico immediato sarebbe una ricaduta dell’Italia in una fase di recessione e un declassamento dei titoli pubblici italiani fino al cosiddetto non-investment grade.
Unita all’incompatibilità della posizione governativa italiana rispetto alle regole e alle istituzioni europee e alla fine della crescente domanda di titoli pubblici da parte della Banca centrale europea (BCE) (fine del “quantitative easing” pur se con il re-investimento dei proventi derivanti dai titoli pubblici precedentemente acquistati e giunti a scadenza), la recessione della nostra economia fungerebbe da anticamera per una grave e crescente difficoltà da parte dell’Italia di reperire sui mercati nazionali e internazionali le risorse necessarie a rifinanziare il proprio debito pubblico. Per giunta, il non-rispetto delle regole europee da parte dell’Italia impedirebbe al nostro governo di aggirare il problema delle difficoltà di accesso ai mercati mediante l’attivazione dei meccanismi europei predisposti fra il 2010 e il 2012. Anche in caso di emergenza estrema, senza un esplicito impegno da parte del governo italiano di essere conforme alle regole dell’euro-area e di attuare gli aggiustamenti richiesti dalle istituzioni europee, non si potrebbero attivare: il lancio di un programma di aiuto da parte del Meccanismo europeo di stabilità (ESM) per l’acquisto di titoli italiani del debito pubblico sui mercati primari e secondari; l’attivazione del cosiddetto OMT, che permetterebbe alla BCE di acquistare un ammontare indefinito di titoli pubblici italiani di breve-medio periodo; la linea di emergenza (ELA) della stessa BCE a favore delle banche italiane.
Sotto il profilo istituzionale, l’ipotetica ma possibile situazione descritta sarebbe molto simile a quella in cui si venne a trovare la Grecia alla fine di giugno 2015 dopo la riunione del Consiglio della UE che sanzionò il rifiuto del programma di aiuto europeo e portò al relativo referendum. Per valutare la portata di tale rischio, appare inutile sottolineare che l’economia italiana ha una dimensione e una forza competitiva molto superiori a quelle greche. Si tratta infatti di differenze che sono significative ma che appaiono meno rilevanti rispetto alle possibili similitudini istituzionali. La vera sfida consiste, invece, nel suggerire iniziative di policy che minimizzino la probabilità che l’attuale governo italiano imbocchi quel sentiero che potrebbe portare a risultati così drammatici.
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