Il Piano May per far uscire Londra dall’Ue è morto, Theresa May è sopravvissuta! Ecco cosa accadrà ora sulla Brexit
17 gennaio 2019
Martedì 15 gennaio la Camera dei Comuni ha sonoramente bocciato il deal che con molta fatica e ancor più ondeggiamenti Theresa May aveva alla fine concordato con l’Unione Europea. 432 deputati hanno votato contro l’accordo e 202 a favore. Si tratta della più pesante sconfitta subita da un governo britannico in un voto parlamentare nei tempi moderni. Per il governo, sono mancati all’appello non solo i voti dei 10 deputati nord-irlandesi del DUP, ma anche quelli di ben 118 deputati conservatori. Più di un terzo dei deputati conservatori ha votato contro il proprio leader.
Mercoledì 16 gennaio la Camera dei Comuni ha respinto la mozione di sfiducia al governo May presentata dal leader laburista, Jeremy Corbyn. 325 deputati hanno votato a favore del governo, 306 contro. In questo caso sia i deputati del DUP, sia i 118 deputati conservatori “ribelli” hanno votato a favore del governo, confermando la loro fiducia in Theresa May. C’è una logica dietro questa apparente contraddizione. L’esito più probabile della caduta del governo May sarebbe stato un governo laburista, o subito, o – più probabilmente – dopo elezioni generali. Nessun deputato conservatore, per quanto avversi Theresa May e il suo deal, metterebbe in gioco il proprio seggio nell’attuale clima di opinione. Tanto più se l’esito più probabile è quello di un governo laburista, la cui leadership è al momento attestata sulla posizione di una Brexit più soft di quella negoziata dalla May.
Ad ogni modo, al netto di tutto questo, le due votazioni hanno lasciato solo due certezze: Theresa May è ancora Primo Ministro; l’accordo da lei raggiunto con Bruxelles è inutile, a meno che non vengano introdotte delle modifiche. Difficile però capire quali.
In effetti il voto di martedì 15 non ha dato alcuna indicazione su quale alternativa il governo possa percorrere. A compattare quei 432 deputati è stata l’opposizione allo specifico piano presentato dal Primo Ministro. Per il resto, non vi è alcuna unità di vedute. I 118 conservatori, che hanno votato contro, sono Brexiteer con varie sfumature che vanno dai fautori del “no-deal” a coloro che accetterebbero anche il piano May purché emendato della clausola relativa al backstop sul problema del confine con la Repubblica d’Irlanda. I Libdem hanno votato contro perché vogliono un secondo referendum, nella speranza che ribalti l’esito di quello del 2016. Lo stesso vale per i nazionalisti scozzesi. I laburisti, pur avendo votato quasi compattamente contro il governo (solo 3 di essi hanno votato a favore del piano May), sono divisi al loro interno. La leadership del partito si è impegnata a rispettare il risultato del referendum del 2016, ma in una declinazione che prevede la permanenza del Regno Unito nell’unione doganale. Vi sono però laburisti che voterebbero a favore del deal proposto dalla May con qualche limatura, pur di evitare in extremis una ‘no-deal Brexit’. Vi è poi chi vuole un secondo referendum, nella speranza di ribaltare il risultato di quello del 2016. Insomma, quei 432 voti non identificano nessuna maggioranza autosufficiente a sostegno di una chiara linea alternativa a quella fin qui seguita da Theresa May. Il che significa che qualsiasi alternativa al deal affossato martedì passa comunque da un accordo con chi ha votato a favore di esso. In mancanza di valide alternative (validità che va misurata sulla base dell’aritmetica parlamentare) il pallino rimane ancora in mano a Theresa May.
Cosa succederà nei prossimi giorni?
Il Primo Ministro ha deciso di avviare consultazioni con i leader dei partiti di opposizione e con deputati rappresentativi dei diversi punti di vista sulla Brexit, al fine di individuare strade alternative rispetto a quella bruscamente interrotta martedì 15. Un importante cambio di metodo, ma tardivo. Ad oggi, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea rimane fissata al prossimo 29 marzo. In un lasso di tempo così ristretto è altamente improbabile che si possa fare molto più che limare il piano bocciato dai Comuni martedì 15. Ancora più improbabile è che l’UE decida di cambiare la sua posizione sulla questione del confine irlandese. E questa appare al momento la sola strada che il governo ha per provare a riguadagnare il sostegno di una parte dei 118 dissidenti di martedì. Inoltre riaprire la trattativa per ottenere da Bruxelles qualcosa in più comporterà inevitabilmente il fatto di dover cedere qualcosa. Insomma, questa ipotesi implicherebbe per Theresa May una Brexit più soft di quella fin qui da lei perseguita. Visti i numeri ai Comuni, ciò significa andare a cercare il sostegno parlamentare di una parte dei laburisti al costo di una rottura con la destra del proprio partito.
Da questo punto di vista le cose cambierebbero poco anche se il governo britannico decidesse di chiedere un rinvio dell’uscita dall’UE e un’estensione dei tempi delle trattive. Verosimilmente Bruxelles potrebbe concederli se il governo britannico mostrasse l’intenzione di sfruttare il rinvio per ridurre le distanze rispetto alle posizioni dell’UE, non certo quella di sedersi al tavolo con rimbaldanzita intransigenza. Anche in questo caso, dunque, Theresa May dovrebbe puntare a guadagnare il sostegno di una parte dei laburisti, decidendo di abbandonare i propri hard-brexiteer.
Altra ipotesi teoricamente sul tavolo è quella di un secondo referendum. È il cavallo di battaglia di Libdem, nazionalisti scozzesi e di un buon numero di deputati laburisti. Theresa May si è sempre detta contraria. Così come Jeremy Corbin, almeno fino al voto di mercoledì 16. Qualora però il leader laburista dovesse cambiare idea al riguardo, l’ipotesi di un secondo referendum compatterebbe tutti i partiti di opposizione e potrebbe acquistare la forza necessaria ad attrarre qualche conservatore contrario alla Brexit e a pressare con efficacia il governo.
Ultima opzione è che la carica ideologica ormai assunta dalla Brexit renda impossibile ridurre in qualche modo le distanze fra le posizioni in campo e che dunque il Regno Unito si avvii verso un’uscita dall’UE senza alcun accordo con Bruxelles.