La BCE ha smesso di comprare titoli di Stato, ma lo spread italiano cala. Indagine su un mistero apparente
25 gennaio 2019
Questo mese è terminato il programma di acquisto di titoli da parte della Banca centrale europea (Bce), ma gli interessi sul debito italiano stanno calando. All’incirca quattro anni fa, tassi e spread sul debito italiano scesero sensibilmente non appena la Bce annunciò il suo imponente programma per acquistare titoli del debito sovrano. Com’è possibile conciliare queste due reazioni dei mercati?
Innanzitutto l’impatto iniziale dell’annuncio del Quantitative Easing (QE) si è rivelato di durata temporanea. Quando gli acquisti effettivamente cominciarono, la maggior parte dei premi sul rischio tornò a salire. C’era da aspettarselo. Il PSPP (o Public sector purchase programme, cioè il Piano di acquisti di titoli pubblici) avrebbe comportato necessariamente un calo duraturo dello spread soltanto nel caso in cui avesse ridotto oggettivamente e in maniera permanente il rischio per i detentori residui del debito pubblico italiano. Il PSPP, invece, potrebbe aver conseguito l’esito opposto. Ciò è dovuto al fatto che, secondo le regole del Piano di acquisti, non era la Bce a comprare i titoli ma soltanto la Banca d’Italia che acquistava a proprio rischio e pericolo. Tuttavia la Banca d’Italia è parte dello Stato italiano.
La domanda fondamentale da porsi, dunque, è se una quota maggiore di debito pubblico detenuto dalla Banca centrale nazionale debba necessariamente abbassare il rischio dei restanti detentori privati dello stesso debito. Il punto è che potrebbe essere vero l’opposto, almeno se si tiene conto di uno scenario realistico di come sarebbero trattati i detentori privati del debito nel caso di un default all’interno dell’Eurozona. L’obiettivo di un default consiste nel ridurre complessivamente i debiti di uno Stato. Quando una Banca centrale acquista i titoli di Stato, il debito di uno Stato nel complesso non cambia, anche se la quota di pendenze sotto forma di titoli detenuti dal settore pubblico è diminuita. Il punto chiave è dunque che, nella maggior parte dei default (e anche nel caso della Grecia), i debiti a brevissimo termine – specie quelli della Banca centrale – sono onorati in pieno, mentre i detentori di titoli (solitamente quelli con una maturità superiore ai sei mesi) devono accettare una riduzione rispetto alle loro pretese originarie. Ciò significa che i detentori privati di debito pubblico dovrebbero aspettarsi una perdita maggiore se l’ammontare complessivo di titoli in circolazione è stato ridotto. L’aspettativa di una perdita simile, che si realizzerebbe nel caso di default, dovrebbe di conseguenza aumentare nel momento in cui il Piano di acquisti riduce l’ammontare di titoli nelle mani di acquirenti privati.
Ci potrebbe essere anche un effetto compensativo, dovuto al fatto che un ammontare minore di titoli in mano al settore privato potrebbe ridurre il rischio di rifinanziamento dello Stato e dunque ridurre la probabilità di un attacco speculativo. Tuttavia il rischio di liquidità non è l’unica ragione per cui uno Stato potrebbe fallire. Per esempio il fardello reale del debito sulle finanze pubbliche potrebbe semplicemente diventare troppo pesante se la crescita rimanesse fiacca e la Banca centrale europea aumentasse i tassi d’interesse a causa dell’innalzamento dell’inflazione. Oppure, come accaduto l’anno scorso, uno Stato potrebbe decidere di abbandonare l’euro e basta. La probabilità che ciò accada dovrebbe essere indipendente dall’ammontare di debito pubblico detenuto dalla Banca centrale nazionale. Questo implica che, nel complesso, l’acquisto di titoli da parte della Banca centrale dovrebbe aumentare le perdite attese dal settore privato per quei Paesi che hanno fondamentali deboli.
Una conseguenza fondamentale di questa analisi è che una quota significativa di titoli del debito detenuti dalla Banca centrale nazionale accresce l’impatto dei fondamentali deboli sul premio per il rischio. Ma questo effetto “amplificatore” funziona in entrambe le direzioni: un piccolo deterioramento dei fondamentali può avere un forte impatto sugli spread; ma un piccolo miglioramento può tradursi pure in una più forte riduzione degli spread.
Tale approccio può spiegare le oscillazioni dei tassi italiani registrate fin dal momento in cui il nuovo governo si è insediato la scorsa estate. I tassi dei titoli italiani a due anni sono schizzati di 180 punti base (da meno 30 a 150 punti) quando il nuovo governo è stato formato, con il suo progetto di aumentare il deficit; un esecutivo, tra le altre cose, che includeva un alfiere dell’uscita dall’euro. Adesso il tasso a breve termine è ridisceso a 30 punti. I tassi sui Credit default swap hanno seguito lo stesso andamento da montagne russe, salendo fino a un picco di 280 punti per riscendere a 200 punti base oggi.
Questo “mondo nuovo” creato dal QE della Bce è dunque tale per cui i mercati rimangono volatili, reagendo con veemenza tanto alle buone notizie quanto a quelle cattive. La lezione per il governo italiano è evidente: anche piccoli errori possono avere un prezzo salato in termini di tassi più alti.
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