Le persone conteranno sempre più degli algoritmi, soprattutto nel giornalismo. Intervista a Jeremy Caplan

29 gennaio 2019
Intervista Open Society off
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La migliore app non salverà il giornalismo. Né il miglior sito web, come ha dimostrato il terremoto che il 23 gennaio ha investito alcuni tra più importanti media digitali negli Stati Uniti. Sì, proprio il web e proprio gli Stati Uniti.

Quel fatidico mercoledì nero è cominciato con una lettera intitolata Difficult changes, firmata dall’amministratore delegato e fondatore di BuzzFeed Jonah Peretti, in cui si annunciava ai dipendenti la decisione della società di ridurre l’organico del 15%. Si tratta di circa 250 giornalisti in meno, con conseguenze che si estendono a 1100 dipendenti della società in giro per il mondo. Lo stesso mercoledì anche la società di telecomunicazioni Verizon, proprietaria di Huffington Post, Yahoo e AOL, ha annunciato tagli per il 7% alle sue redazioni, circa 800 persone. Questo mentre uno dei principali gruppi editoriali degli Stati Uniti, Gannett, confermava una nuova stretta, con licenziamenti in diverse testate cartacee, tra cui Usa Today. Secondo le stime, dal 2004 a oggi, in quindici anni, negli Stati Uniti le redazioni dei quotidiani hanno perso circa la metà dei dipendenti.

La crisi non è estemporanea, né riguarda soltanto queste testate. Il problema è più ampio, (come lo stesso Peretti ha riconosciuto in un’intervista sul Financial Times), e ha a che fare con il modello di business del giornalismo. I social network e le piattaforme non hanno solo sottratto lettori alla carta ma, ci raccontano gli eventi recenti, stanno mettendo in discussione anche l’assodato modello dell’informazione web, basato sugli annunci pubblicitari.

Che ne sarà del giornalismo, in futuro? Per sopravvivere nei media non basta modificare tecnologia, ma serve cambiare logica, sostiene Jeremy Caplan, direttore del Centro per il giornalismo d’impresa alla Central University di New York. «Io, per esempio, ho smesso di seguire le breaking news. Mi concentro sugli approfondimenti e sulle storie di lungo respiro». Ex giornalista di Time magazine, Caplan è convinto che le trasformazioni in corso siano entrate in una fase di svolta e che una nuova età dell’oro del giornalismo stia per cominciare. In questa intervista spiega perché.

 

Dal punto di vista del fruitore, il mondo dell’informazione contemporanea assomiglia sempre più alla biblioteca di Babele, con stanze infinite che contengono libri “illimitati”. Un sapere grandioso ma inutile, perché orientarsi è quasi impossibile. Solo i bibliotecari la conoscono, anche se parzialmente. È questo il futuro del giornalismo? Quello del bibliotecario infaticabile? 

Accanto al ruolo di chi crea nuovo sapere si è fatto sempre più importante il ruolo della “guida” e di intermediazione per recapitare quel determinato contenuto al fruitore. Negli anni a venire l’informazione non smetterà di proliferare, e il servizio di curation (termine mutato dalla “curatela” museale e che indica il lavoro di selezione, raccolta e presentazione dei contenuti, ndr) sarà sempre più urgente. In un ecosistema mediatico nel quale già oggi si possono ascoltare oltre 500 mila podcast e ogni settimana se ne pubblicano 10 mila nuovi. Il Washington Post offre ai lettori  più di 60 newsletter tematiche, e nel mondo ci sono centinaia di testate nel mondo che fanno un lavoro analogo. Per orientarsi nel mondo di oggi oltre al giornalista serve un buon “curatore”. Entrambi i ruoli del giornalista saranno fondamentali e sempre più impegnativi.

 

Lei ci ha raccontato che tanti suoi studenti vengono assunti subito dal New York Times o dal Boston Globe per le loro capacità di gestire newsletter, o lanciare e gestire podcast. Viene da chiedersi se questo è il nuovo modo di fare il giornalista, o se piuttosto le nuove leve si troveranno a fare un lavoro che si allontana, a volte di poco, a volte di molto, da quello del giornalista.

Il giornalismo contiene aspetti molto diversi tra loro. Il giornalismo può riguardare oggi la creazione di un podcast, o la preparazione di newsletter e di contenuti social, e persino la creazione di contenuti visivi a 360 gradi. Il giornalismo è incentrato sullo storytelling, e sulle tecniche comunicative utili per spiegare situazioni complesse con un linguaggio comprensibile al maggior numero possibile di persone. Questa narrazione può assumere le forme più disparate, purché abbia un senso per chi la fruisce. E purché i giornalisti si attengano agli standard qualitativi di rilevanza, trasparenza e verità, fornendo analisi o sintesi credibili e appetibili. Esattamente come un cliente che chiede al ristorante un piatto particolare. Lo chef è pronto a mixare gli ingredienti di sempre per accontentarlo in un modo nuovo. Così il ristorante resta aperto! Il giornalismo è questo. Non si tratta di quale pacchetto sia disponibile. Conta il contenuto di valore.

 

Queste nuove figure professionali si affiancano al giornalismo “vecchio stile”. Il giovane laureato che cura la newsletter arriverà poi a occuparsi di far emergere un nuovo “Watergate”, o resteranno carriere separate?

Ci sarà sempre un ruolo per i giornalisti che scavano in profondità e fanno inchiesta. È un ruolo sacro e permanente del giornalismo. Cercare la verità che sta dietro un problema complesso è la nostra eterna missione. La sola domanda che conta è: attraverso quale pacchetto la consegneremo, quella verità, da qui al futuro? Teniamo presente che il nostro sarà un mestiere che si farà sempre di più in gruppo. I giornalisti dovranno essere in grado di utilizzare l’intelligenza artificiale per analizzare i big data, per esempio. L’organizzazione e la divisione del lavoro giornalistico di inchiesta non lo decidiamo qui e ora, lo faranno i nuovi talenti che si confronteranno con il loro tempo. Un ruolo per i programmatori, per i designer, e gli analisti digitali ci sarà, questo è sicuro. La competizione e le opportunità per i posti di lavoro rimarrà quella che è oggi. Non tutti possono lavorare alla divisione “Spotlight” del Globe!

 

Come immagina la redazione del New York Times all’inizio del XXII secolo?

Cento anni da oggi? Sono tanti, le previsioni sono sempre impegnative. Intanto penso che quello che vedremo sarà ancora una società interessata a sapere cosa succede nel mondo, persone che hanno ancora fame di informazione. È già tanto no? Ci si porrà le domande in termini differenti, forse. Come nell’antichità i naviganti scendevano dalle navi e raccontavano le loro storie, nel XXII secolo si vorrà avere notizia di quello che succede altrove. Credo che cambierà in modo radicale la concezione della professione giornalistica. L’idea di cosa è e cosa deve fare un giornalista. Forse non ci saranno più i social come li conosciamo oggi, ci saranno nuove piattaforme. Se dovessi proprio fare una previsione, credo che andremo verso un mondo in cui i giornalisti non avranno il monopolio dell’informazione. Un chirurgo potrebbe occuparsi di produrre contenuti sulla chirurgia e raccontare la sua professione. Oggi questo lavoro lo fanno soltanto i giornalisti che si occupano di salute. È un fenomeno che si vede già, in parte. Nel futuro il compito del giornalista andrà sempre più verso l’organizzazione e la selezione di questi contenuti da diffondere. Le persone saranno sempre meno interessate a ricevere informazioni da un “club di esperti” quali probabilmente sono stati considerati i media. Torniamo così al ruolo della curation di cui abbiamo parlato. Il mondo, penso al campo scientifico, va verso una notevole complessità, e già oggi molti giornalisti fanno fatica a comprendere tutte le sfumature, per esempio, di una scoperta scientifica. Gli specialisti in futuro potrebbero creare contenuti divulgativi che saranno mediati dal giornalismo.

 

 

L’articolo proposto è un’intervista realizzata da Riccardo Antoniucci e Gennaro Serio per Reporter Nuovo, che ringraziamo per la gentile concessione

intervista a

Jeremy Caplan è direttore del Centro per il giornalismo d’impresa presso la Newmark Graduate School of Journalism della CUNY Central University di New York.


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