Un’ideologia a due dimensioni. Un estratto dal libro ‘Uno non vale uno’ di Massimiliano Panarari
12 febbraio 2019
«Uno vale uno» è, indubbiamente, un distico seducente, dalla superficie tanto sexy quanto all’apparenza incontestabile. Evoca la politica dell’orizzontalità assoluta dentro le organizzazioni, della democrazia diretta, della disintermediazione e dell’azzeramento della separazione tra potere e cittadini. E «uno vale uno», giustappunto, lo si è sentito spesso ripetere all’interno di tutta una parte del discorso pubblico di questi nostri anni.
Ma delle verità autoevidenti e autolegittimanti (o, per meglio dire, che si presentano come tali) bisognerebbe sempre diffidare. Di molte, infatti, si sente da lontano l’eco di una moneta falsa, la quale, malauguratamente, in questi tempi di smarrimento ha larghissimo corso anche tra tante persone perbene e insospettabili, come tutti noi alla ricerca di qualche approdo o punto di appiglio. Nello scenario della postmodernità in cui siamo stati scaraventati ormai da vari decenni, riflettere sulla politica esige, sempre di più, che si ragioni con attenzione sull’immaginario e sul linguaggio.
Perché, come scriveva ne Le parole e le cose quell’imprescindibile anticipatore del pensiero postmoderno che risponde al nome di Michel Foucault, nelle condizioni del discorso (che chiamava episteme) si esprimono le varie «verità pubbliche» delle diverse epoche e società. Il volume propone un’analisi (e una decostruzione) delle narrazioni populiste e sovraniste, che si sono rivelate in grado di configurare il panorama egemonico delle idee ricevute (e assorbite) da quote rilevanti dell’opinione pubblica, e ci sono riuscite attraverso la veicolazione di una neolingua assertiva, manichea e dicotomica, che vuole deliberatamente generare contrapposizioni. Una politica linguistica che rinuncia programmaticamente al compromesso, anzi, lo stigmatizza esplicitamente come «immorale», puntando così sovente ad azzerare la possibilità stessa del dibattito, attraverso concetti tanto basici ed elementari (una sorta di «lessico») che diventa di fatto impossibile dichiararsi contro, oppure negando una legittimità «etica» al portatore di opinioni differenti. Al medesimo tempo, queste narrazioni disintermediano ed eliminano la complessità e le problematicità del reale, presentandosi come (presuntamente) capaci di andare alla radice delle questioni e proponendo soluzioni che sfidano la logica basandosi su relazioni causali, spesso arbitrarie e fallaci.
Abbiamo compendiato queste narrazioni populsovraniste (o «pop-sov») mediante cinque parole chiave (spesso già convertite in parole d’ordine e parole bandiera) o «mitologie». Quello che tenteremo di comporre è quindi una sorta di «dizionario dei luoghi comuni», al quale vorremmo contrapporre, come sottolineava Roland Barthes nella sua disamina del testo flaubertiano, una presa di coscienza linguistica, facendo debunking di un articolato apparato narrativo-discorsivo lungo il duplice asse linguistico-politico e politico-comunicativo.
Una nuova età dell’ansia
Viviamo in un’epoca di angoscia generalizzata, che ha visto per tanti il rovesciamento delle sorti magnifiche e progressive promesse dall’ultima ondata della globalizzazione, come pure dallo schema di una vantaggiosa «fine della storia» nell’accezione iperottimistica di Francis Fukuyama: il migliore dei mondi possibili realizzato dal crollo del comunismo e dalla vittoria definitiva e irreversibile del capitalismo e dei sistemi liberaldemocratici. E, invece, man mano che apparivano chiari gli esiti disastrosi prodotti dal crollo finanziario del 2008-2011 (tra bolla immobiliare e crisi dei mutui subprime inesigibili scoppiata negli Stati Uniti nel 2006) e dalla depressione economica successiva, arrivava a manifestarsi in maniera clamorosa un’inedita «età dell’ansia», per citare il grande poeta inglese del secolo scorso Wystan Hugh Auden. A contribuire a tale situazione ci ha messo molto del suo (chiaramente) pure la condotta irresponsabile, famelica e predatoria dei gruppi dirigenti di varie banche e istituti finanziari, che hanno scaraventato le conseguenze nefaste della loro cupidigia sulla popolazione, e si sono fatti salvare con i soldi pubblici, tradendo a più riprese qualsivoglia principio liberale, come racconta molto dettagliatamente e analiticamente un libro dello storico Adam Tooze. E per completare il quadro generale dell’angustia – e non si tratta evidentemente di un aspetto secondario – bisogna anche considerare la condizione di metamorfosi permanente e di modificazione incessante a cui si trova sottoposta la sempre più spossata e affannata umanità occidentale.
A raccogliere i frutti avvelenati, ma elettoralmente fertilissimi ed estremamente vantaggiosi di questa sofferta condizione psicologica individuale e collettiva sono, come palese, i pifferai magici che conducono le formazioni populiste e sovraniste. Una sorta di «Orda d’oro» (o, meglio, nerofumo, nera nerissima) che sta conducendo una cavalcata trionfale in Europa, e che ha già conquistato gli Stati Uniti tramite il suo (Gengis) Khan Donald Trump. Un’ondata che assume anche le sembianze di una vera e propria internazionale populista, con i suoi ideologi (Steve Bannon, già stratega del presidente-costruttore-tycoon newyorkese), i suoi nemici in comune (un’Europa forte e autonoma), i suoi “lord protettori” (in primis, e incontrastato, Vladimir Putin, qualche primo ministro dell’Europa orientale, fino all’esotico presidente turco Recep Tayyip Erdoğan). E, così, l’ansia dilaga, e rischia di travolgerci tutti quanti, facendo rotolare nel burrone il paradigma stesso della democrazia liberal-rappresentativa, la crisi delle cui istituzioni è pesantissima, e va – anzi andava per tempo – presa maledettamente e tremendamente sul serio. E non basta più enunciare in maniera ideologica – e finanche troppo retorica – che le liberal-democrazie rappresentano i migliori regimi possibili (che, anche per assenza di prove controfattuali, rimane vero). Ma bisogna impegnarsi a spiegare bene il loro funzionamento e le loro architetture, illustrandone i vantaggi (morali e materiali), difendendole costantemente, e facendone – anche se qualche liberale eccessivamente “purista” potrebbe magari storcere il naso – delle infrastrutture di inclusione civile e sociale, così da combattere ad armi pari i virtuali proclami “di uguaglianza” e il neocomunitarismo chiuso a porte sprangate dei nazionalpopulisti. Chi si riempie la bocca di questo e altri slogan intende difatti affermare una visione ben distante da quell’uguaglianza di tutti e tutte di fronte alla legge che costituisce, all’interno delle democrazie liberal-rappresentative, il fondamento inalienabile del nostro convivere (ovvero, filologicamente, il “vivere insieme” secondo un atteggiamento di reciproca accettazione, e non di rigetto o sconfessione dell’altro).
